Corinto, Dio e le scelte “non convenzionali”

Ciò che è stolto; ciò che è ignobile, ciò che è debole e disprezzato ha avuto la meglio nella selezione operata da Dio per formare la comunità dei corinti. Così Paolo realizza il momento fondativo della realtà di Corinto; un vero e proprio screening di tutti coloro che si erano candidati al battesimo per entrare nella comunità, con la precedenza su tutti di alcuni che pare siano implicati con la parola della croce su cui l’apostolo ha acceso i riflettori in questo inizio di lettera.
Una parola “stolta”, quindi adatta a chi è stolto; una parola “debole”, adatta a chi è debole; una parola “disprezzata” e “ignobile”, adatta a chi è disprezzato ed ignobile (ἀγενής).
Quest’ultima caratteristica esprime l’indicibile, il non political correctness, l’esatto contrario dell’idea che i corinti – i greci e i latini in generale – potevano avere della divinità. Ignobile è tutto quanto non merita considerazione: per esempio Gesù, figlio di un falegname, di un artigiano che viveva del lavoro delle proprie mani, per i greci (e per i romani) non meritava di essere preso a modello da una religione e, per di più, dai suoi testi sacri (vangeli e lettere); le sue credenziali, secondo la loro cultura, erano prive di una vera e propria origine degna di una persona: ἀγενής vuol dire “senza” (ἀ-) “origine” (-γενής), infatti. L’apostolo si accorge del rischio che i corinti, sempre pronti a considerarsi intellighenzia, alimentano di continuo, vantandosi di essere stati battezzati da questo o da quell’altro missionario, e gonfiandosi di orgoglio per le imprese eclatanti condotte contro qualcuno, contro la legge di Dio e degli uomini, e contro la propria stessa chiamata; andando a fondo, sfruttando il bagliore naturale della parola della croce trova che nessuno di loro è parte di una comunità di perfetti relativamente alle proprie origini, bensì grazie alla scelta operata da Dio.
La stoltezza della predicazione dei missionari del vangelo, come mezzo per la salvezza, ha in sè uno straordinario potere di confondere l’intellighenzia, prima, per poi coinvolgere, entusiasmare e accostare la storia di ognuno a quella del Cristo crocifisso (1,21-23); e questi versi sono un capolavoro anche per quello che riguarda la musicalità del termine crocifisso con cui si spezza l’andamento troppo lineare del discorso che porterebbe altrimenti i fratelli a distrarsi a causa della perfezione dello scritto.
Cristo crocifisso spezza e spiazza, distoglie e confonde ancora una volta ma, andando sempre più avanti, riprende, compone e consegna la comunità a sè stessa come un tutt’uno: confondendo i sapienti dopo aver scelto gli stolti, disorientando i forti dopo aver scelto i deboli, azzerando il valore di ogni cosa dopo aver scelto gli ignobili. La tradizione successiva alle vicende e agli scritti di Paolo riconoscerà un ruolo ben preciso nel Nuovo Testamento ai vangeli dedicati esclusivamente a Gesù (Matteo, Marco, Luca e Giovanni) e sebbene in questi scritti, dall’inizio alla fine, si esalterà l’enorme valore della povertà come condizione essenziale ed esclusiva per seguire il Maestro e fare parte della comunità (Regno dei cieli), è con Paolo che i poveri vengono presentati e tenuti sempre avanti rispetto a tutto il resto della folla: poveri perchè scelti, scelti perchè considerati “particolari” (stolti, deboli, ignobili e disprezzati) e considerati “particolari” ma perfetti per confondere chi la pensa come tutti gli altri, rispetto al vangelo.
Citando in altri brani l’espressione: Ecco, io pongo in Sion una pietra d’angolo, scelta, preziosa, e chi crede in essa non resterà deluso (Is 28,16; Sal 118,22; Is 8,14), Paolo userà la stessa parola confusione, delusione come in questi primi versetti della lettera a motivo del fatto che essere disorientati può succedere, così come può succedere di essere delusi dalle ideologie, dalle figure politiche e sociali presi a riferimento di uno stile di vita vero e proprio, ma quello che conta ad un certo punto decidersi per Cristo e per Cristo crocifisso che può all’inizio destabilizzare il proprio modo di pensare e vedere le cose, ma può anche riempire il cuore e l’anima di quella speranza che ci sia un senso a tutti i fallimenti di cui si è responsabili lungo la storia personale. Proporre modelli di successo, ricchezza e potere è un gioco semplice e apparentemente perfetto, oggi come oggi, soprattutto per i giovani: non ci sono regole dure, basta crederci, sognare e “illudersi”, lasciarsi confondere, non farsi domande, non andare troppo a fondo e, se occorre, polemizzare offendendo, aggredire, urlare, gesticolare minacciando, incutere timore, depistare l’altro e ridurlo a niente rispetto a sè stessi. Sentirsi “dio” pare che sia uno degli sport più praticati da adulti e giovani che attraverso i social network creano isole attorno a sè stessi e sperano di diventare famosi con le proprie forze. Da quando impazzano queste mode e questo stile di vita, il messaggio cristiano è finito nell’ombra e le comunità vengono bersagliate di continuo da critiche che non fanno altro che ridicolizzare il senso della chiamata a confondere i sapienti, i forti e gli altolocati (1,26).
- Perchè ad essere confusi sono anche tanti cristiani, dentro le nostre comunità, se non aver dimenticato di essere stati chiamati da Dio a confondere il mondo?
- Come può il cammino di fede di ognuno recuperare il senso della scelta fatta da Dio nei suoi confronti se al centro c’è solo la propria persona e non piuttosto la parola della croce?
- Si è nelle condizioni di credere senza restare delusi? Oppure occorrono sempre più miracoli e sapienza di parola per guarire dalla debolezza e dalla stoltezza che Dio ha scelto per confondere il mondo come fosse qualcosa di cui vergognarsi?
- Quale rapporto e considerazioni ogni comunità, ogni singolo fratello è, oggi, in grado di maturare nei confronti delle proprie origini “ignobili” (ἀγενής), cioè senza particolare riguardo e privilegio?