L’intenzione di partecipare del Vangelo, da parte dell’apostolo, rappresenta una conquista pari a quella che emblematicamente contraddistingue gli atleti dalle altre persone mentre vengono incoronati con corone d’alloro dopo la vittoria negli stadi. Analogamente, la corona eterna (στέφανον ἄφθαρτον) esercita un certo fascino verso la mente, il cuore ed il corpo e la natura umana dell’apostolo a tal punto da coinvolgerlo in ogni azione pastorale fino allo sfinimento; essere capaci del Vangelo, con cui l’apostolo è totalmente coinvolto, impegna la vita in un continuo “svuotamento”, pulizia e ordine con una precisa disciplina (ἐγκρατεύομαι) (1Cor 9,25), una puntuale attitudine a dominarsi e a sigillare la propria condizione anche con la morte, se occorre. Ciò riporta l’attenzione sul ruolo dello Spirito Santo che viene in soccorso ai fratelli di Corinto, affinché non siano abbandonati alle proprie forze, ma comprendano sempre di più e sempre meglio quanto riguarda la storia della propria conversione e della propria comunità: «l’uomo lasciato alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo dello Spirito» (1Cor 2,14); allo stesso tempo, la disciplina dell’apostolo dedicato alla corona eterna chiarisce il concetto espresso nei versetti precedenti sul guadagno di ciascun fratello a Cristo come una vera e propria competizione spirituale per la quale tutto è concesso, purchè il fine venga raggiunto (1Cor 9,20-23).[expander_maker id=”1″ ] Il passaggio della seconda lettera ai Corinzi, in cui l’apostolo smentisce l’identità di alcuni che si ritenevano apostoli, ruota attorno ad un elenco di prove fisiche sopportate da Paolo per amore del Vangelo: «Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; 25tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2Cor 11,24-28). È vero che il rischio che si nasconde dietro queste parole è lo stesso che l’apostolo ha scongiurato per i corinzi, «neonati in Cristo» (1Cor 3,1), ma è pur vero che egli ne fa ammenda e in modo consapevole scorre l’elenco dei propri “numeri” senza rimorso. Questo a motivo del fatto che vantarsi, ad un certo punto, per l’apostolo rientra nell’annuncio stesso del Vangelo, poiché è a motivo di Cristo che le debolezze sono state crocevia di grazia, resistenza e fedeltà alla missione: «Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12,8). Niente può offuscare il senso di una tale potenza di Cristo (δύναμις τοῦ Χριστοῦ): né il vanto esagerato né il silenzio omissivo. Corona eterna e disciplina evangelica si declinano attraverso il rapporto con Gesù Cristo e la sua presenza “potente”: «La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio.» (1Cor 1,18). È vero, dunque, che l’apostolo ha richiamato fin dall’inizio del suo scritto l’atteggiamento vanitoso dei corinzi colpevoli di andar fieri di commettere errori a danno della comunione, ma proprio per questo egli indica come rimedio energico e verificabile l’allenamento alla “parola della croce”; per cui, le prove elencate ai Corinzi nella seconda lettera sarebbero motivo di sola vanità se non venissero comprese attraverso la luce dell’intero messaggio missionario, espresso in modo audace (anche se poco coreografico) con “parola della croce”. Allenarsi ad essa, preparando il cuore al disprezzo che il mondo esterno alla comunità adotta verso la “debolezza”, nel corso di un tempo sempre votato al successo delle “sole forze” dell’uomo è la sfida perenne posta alla comunità cristiana; non però in un contesto di pensieri astratti e vaghi, bensì nell’alveo delle relazioni con il fratello e la sorella, uomini e donne per cui «Cristo è morto» (1Cor 8,11) in quanto creature deboli da sostenere ad ogni costo. Per la chiesa cristiana, il tempo degli entusiasmi facili, infatti, ha lasciato il posto al tempo dell’autenticità e quello degli irenismi prevedibili è collassato come neve di primavera verso il dirupo roccioso di una società in cerca di “leader” credibili, veri, disposti a dare anche la vita (se occorre) per l’altro.
Spunti e appunti per una Lectio personale
Profeti “allenati” al servizio del vangelo
Deuteronomio 8, «2Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te».
(Vedi anche Giovanni 8,31-32; Ezechiele 2,5; 2Timoteo 4,2; Sapienza 6,22) [/expander_maker]