8 Dicembre 2023

Paolo e il selfie da servo “inutile” (1Cor 4,8-13).

di don Salvatore Chiolo

La fibrillante tensione da cui l’apostolo cerca di non farsi tradire, ad un certo punto scoperchia il pentolone della sua esperienza sul campo per tirar fuori il grigiore bollente della situazione partecipata a tutti i missionari di tutti i tempi e mai passata di moda. «Siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi » (4,13), dichiara con sincerità ma, allo stesso tempo, con fermezza Paolo ai fratelli e alle sorelle di Corinto; e si nota come il discorso s’impenni nel momento in cui l’apostolo parli di sazietà e onorificenze da parte dei corinzi ironizzando sulla smania di autosufficienza spirituale che ultimamente li ha resi alquanto “famosi”. Sazietà in riferimento al latte che l’apostolo ha dato loro, al posto del cibo solido tanto necessario ma anche tanto inopportuno, almeno al momento (3,2); onorificenze, invece, in riferimento allo stile clientelare del farsi “figliocci” di questo o quel missionario di battesimo.La fibrillante tensione da cui l’apostolo cerca di non farsi tradire, ad un certo punto scoperchia il pentolone della sua esperienza sul campo per tirar fuori il grigiore bollente della situazione partecipata a tutti i missionari di tutti i tempi e mai passata di moda. «Siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi » (4,13), dichiara con sincerità ma, allo stesso tempo, con fermezza Paolo ai fratelli e alle sorelle di Corinto; e si nota come il discorso s’impenni nel momento in cui l’apostolo parli di sazietà e onorificenze da parte dei corinzi ironizzando sulla smania di autosufficienza spirituale che ultimamente li ha resi alquanto “famosi”. Sazietà in riferimento al latte che l’apostolo ha dato loro, al posto del cibo solido tanto necessario ma anche tanto inopportuno, almeno al momento (3,2); onorificenze, invece, in riferimento allo stile clientelare del farsi “figliocci” di questo o quel missionario di battesimo. Per cui, la dichiarazione di Paolo, come una professione di fede senza precedenti, poggia tutta quanta sull’iniziativa di Dio che ha voluto mettere i suoi missionari all’ultimo posto, come condannati a morte e come spettacolo per il mondo, sia angeli che uomini (4,9); non una semplice battuta tra le righe sulla condizione scelta dai chiamati ed eletti, ma una vera e propria denuncia del pensiero di Cristo in merito alla sorte di ciascuno dei missionari: nessuno escluso. A questo punto, è difficile capire se l’ironia di Paolo riguardi più lo stile incensurato dei corinzi o la sua stessa condizione di umiliato per la gloria del Signore; tuttavia, una cosa è certa: il selfie trasmessoci dall’uomo di Tarso rispecchia il profilo di una persona capace di Dio, del suo pensiero e del suo stile più vero, nudo e crudo. Leggere le sue parole, a distanza di duemila anni, rende la stessa sensibilità di ognuno molto più vulnerabile di quanto non si pensi; perché la dinamica avvincente del rapporto che coinvolge l’apostolo e la comunità, e tutti e due con Dio, appare compresa, scrutata e nuovamente riaffermata senza filtri e nella sua genuinità più intima. Il termine spazzatura (περικαθάρματα) è presente soltanto in questo passo rispetto all’intero epistolario paolino e riconduce idealmente ad una situazione di infamità che assomiglia a quella del contesto urbano di Gerusalemme, abituato a gettare la spazzatura nei wadi attorno, uno dei quali denominato Geénna: depuratore – inceneritore perennemente acceso, che lasciava intravedere la sorte maleodorante e fumosa di tutto quanto vi finiva dentro. Niente a che vedere con le onorificenze – è ovvio – tanto ricercate dai fratelli e dalle sorelle della comunità, appunto, quanto piuttosto molto vicino all’idea del servo inutile (ἀχρεῖος) che realizza quanto gli viene chiesto di fare, senza pretendere riconoscimento alcuno. La sorte dell’apostolo migra di continuo dagli sguardi “nobiliari” e gentilizi dei benpensanti alla visione, all’immaginario vero e proprio di una mentalità diversa alla radice, cioè nelle motivazioni più intime, profonde, reali ed intrinseche; egli conosce bene quanto lo attende, ma ritiene di dover ribadire quanto ha appreso a Damasco e, da quel momento, ogni giorno del suo mandato. «Soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo percossi, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo» (4,11-13) e tuttavia rimanendo nell’intento di servire, anziché in quello di regnare. Perché, sebbene sembri irreale, l’immagine del credente convinto, disposto solo a guardare dall’alto verso il basso tutto e tutti, dai tempi apostolici ad oggi non stenta a morire; ed è una vera e propria sciagura ecclesiale  rincorrere il potere, accaparrarsi titoli e gareggiare nella ricerca di posti, applausi e like, pavoneggiandosi in vestiti medievali che anche esteticamente sanno di tarme e naftalina: una vera e propria epidemia che ha preso le comunità per collottola quasi imponendosi a scapito del buon senso, un insensato malcontento suffragato da iconiche reminiscenze feudali. Sarebbe già problematico qualora la difficoltà si limitasse al singolo, all’individuo e alla propria visione del mondo e della realtà; invece… E invece è compromessa tutta una relazione con il resto del mondo che riguarda il popolo, l’assemblea dei credenti, quella che si definisce chiesa dal momento che riguarda i chiamati , non i simpatizzanti, i curiosi, i cristiani anonimi, oppure i cercatori di verità.Quando l’apostolo sposta l’attenzione sul pensiero di Cristo sembra non inventare nulla di nuovo, eppure è praticamente una fortuna avvertire la genuinità delle sue parole in tempi di clericalismo anti-evangelico e ante litteram: genuinità e freschezza dedicata a Timoteo con una parola degna di fiducia (fedele, πιστὸς) «se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 2,10-12).

Da dove può essere generata questa idea “regale” secondo la logica comune, ovvero soltanto esteriore e superficiale, che inficia da sempre il vivere ecclesiale?
La distanza con il senso di quanto intende l’apostolo è solo una questione cronologica, ovvero di un tempo diverso da quello di oggi, oppure esiste una prossimità con la “parola fedele” che supera i limiti temporali?
Quando è importante rimettere al centro la “parola fedele” del destino in comune con Gesù Cristo crocifisso?Cosa può aiutarci a prendere consapevolezza del coinvolgimento ecclesiale nelle logiche comuni, distanti dal “pensiero di Cristo” e dalla “parola della croce”?

Spunti e appunti per una Lectio personale
Fedeltà del popolo e fedeltà personale
Romani 5,12 12Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato… 17 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevonol’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
Unità e amore fanno brillare le comunità nel cielo oscuro del mondo
Giovanni 17, 15 Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16 Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17 Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19 per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità. (——> vedi anche: Fil 2,15-16a; Mt 5,14-20; Gv 8,12)

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