
Le parole della liturgia pasquale della II domenica dopo la Resurrezione sono quelle a cui si è ispirato Leone XIV e suonano con una certa musicalità dal momento che esse sono innanzitutto quelle proferite dal Cristo, «mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei» (20,19). Le parole della pace sono le parole del Cristo che «stette in mezzo», ricollocandosi laddove la presenza diventa un insegnamento più incisivo di ogni teoria: perché reale, perché sincera e perché genuina; e sono quelle che indicano il mandato nella forma, però, della reciprocità, ovvero della risposta all’iniziativa del Padre da parte di Cristo e all’iniziativa di quest’ultimo, da parte dei discepoli: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (20,22).
Sono tutte qua le indicazioni per l’inizio di questo mandato pontificale: semplici, ma precise ed ispirate – se veramente crediamo che dietro a tutto ciò ci sia stato, c’è e ci sarà ancora lo Spirito di Dio. Pace, come conseguenza della centralità di Cristo, accolta e custodita. Pace come elezione all’apostello, al mandato apostolico, dato da chi per primo lo ha vissuto e, perciò stesso, lo può consegnare con autorevolezza. Pace, insomma, ad una chiesa in grado di scomodarsi per mettere l’altro al centro e, assieme a lui, costruire ponti; pace per una chiesa “anticlericale”, cioè pronta a far sedere tutti, laici e non, attorno alla Parola del maestro, scrollandosi di dosso il privilegio dei primi posti nel cenacolo, e non solo. Pace ad ogni comunità capace della missione e, quindi, della priorità, anche rispetto all’urgenza. «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti […] tu invece va’ e annuncia il regno di Dio» (Mt 8,22 e Lc 9,60). Ma c’è di più.
C’è che ad un certo punto dello stesso brano, scorrendo qualche virgola in avanti, Gesù sempre «in mezzo», consegna lo Spirito Santo per una reciprocità nel perdono, cioè per una vita di comunità che spazia dalla misericordia alla giustificazione, senza interferenze: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,23). Come a dire che nel saluto di Leone XIV, annuncio e misericordia sono i tempi con cui, attraverso le chiavi di Pietro, aprire e chiudere, costruire e abbattere, piantare e sradicare così e per come Dio stesso ordina di fare al propro eletto, mentre lo attrezza per la profezia: «oggi ti do autoritàsopra le nazioni e sopra i regniper sradicare e demolire,per distruggere e abbattere,per edificare e piantare» (Ger 1,10). Un programma di pace “disarmante”, perchè mette l’altro nelle condizioni di non nuocere, e “disarmata” perchè s’impone in forza dell’autorità della Parola, cioè della presenza a sè stessi e agli altri al centro di ogni luogo di paura, di distrazione ed esclusione dell’altro. Un richiamo unilaterale all’umano fatto attraverso i sensi lucidi di chi ha la consapevolezza di aver udito, veduto, toccato e contemplato il Verbo della vita (cfr. 1Gv 1,1). Non in forza del carattere che deriva dalla Legge, come direbbe san Paolo, ma che viene dall’esperienza del Risorto vissuta nel luogo stesso della paura: quell’esperienza che commuove, fa tremare la voce e le gambe, ma che cambia la vita integralmente.
La vita e la persona di Leone XIV è quella di chi accoglie ed abbraccia tutti con la stessa intensità architettonica del colonnato di piazza San Pietro per mettersi al centro, come figura di Cristo, in un mondo fatto di paure gigantesche che aspetta con ansia la pace, a prescindere dal credo religioso. È la vita di un uomo rivestito innanzitutto di quel carattere tutto umano (americano innamorato della Parola) a cui è chiesto di collocarsi nel bel mezzo della storia di questo tempo con la mitezza, la docilità e la sincerità di quello sguardo dai sensi lucidi, perchè consapevoli e intuitivi, abili ed esperti di quell’umanità tutta protesa verso l’Altro, verso Dio, padre di tutti che tutti ama.