25 Gennaio 2024

Essere preti e padri oggi

di di Giusy Andolina

Durante il tempo di Natale ho avuto l’opportunità di leggere e meditare sul saggio di don Salvatore Rindone dal titolo Papà mi faccio prete! Istruzione per l’uso di un mestiere impossibile edito da Il pozzo di Giacobbe (Trapani, 2023) con la prefazione del prof Andrea Grillo. Mi è subito parso chiaro che mi trovavo di fronte ad un testo “coraggioso” da tanti punti di vista. Anzitutto il libro affronta problematiche che riguardano la condizione del prete oggi e ne parla in modo autoironico, con una leggerezza che non è mai né retorica né tanto meno superficialità. L’autore del volume si pone continuamente delle domande che riflettono sull’opportunità e sulla condizione del presbitero oggi, cogliendo quelle che sono le critiche di una parte del “sentire comune” e rispondendo con argomenti chiari, fondati sulla prospettiva sia misterica che profondamente umana. Parlando delle problematiche del prete, il lettore credente è portato a domandarsi se in realtà queste criticità si riferiscano soltanto al ministro ordinato o, più propriamente, ad ogni cristiano che vuole vivere seriamente il suo percorso di fede, qualunque sia il proprio stato di vita. Fin dai primi capitoli don Salvo sente l’esigenza di fare un explicatio terminorum chiarendo gli appellativi: sacerdote, prete e presbitero/anziano teologicamente più corretto, facendo emergere la preferenza, per il sentire comune, dell’appellativo “padre”.
In una società come la nostra in cui si reclama il “ritorno del padre” – ovvero della figura paterna simbolo di autorità e metafora di norme sociali, ma allo stesso tempo, e paradossalmente, simbolo di figure autoritarie classiche (quali i genitori, gli insegnanti, il prete, il pubblico ufficiale) che non vengono più accettate – e in cui si ricercano nuove pseudo-autorità di riferimento come gli influencer e i guru del momento, vi è tuttavia una domanda di fondo che attraversa tutto il saggio: di quale prete/padre ha bisogno la Chiesa di Dio oggi? È chiaro che l’invocazione sul “ritorno del padre” riguarda anche la Chiesa e i suoi operai. Il Popolo di Dio spesso lamenta la mancanza di figure di riferimento, invoca preti disponibili all’ascolto, presenti ad ogni loro necessità, come dice l’autore «preti pop ma allo stesso tempo che abbiano profondità spirituale e distacco dalle cose del mondo». Il prete/padre è prima di tutto un uomo di Dio con una personalità maturata nel confronto con la Parola di Dio e con la comunità. Non è né giusto né corretto umanamente pretendere che i nostri pastori siano a “nostra immagine e somiglianza”, questo non vuol dire voler loro bene.
Dio Padre non impone loro un perfezionismo sterile, un modo prestabilito di essere “preti” mortificando la propria personalità, piuttosto nella relazione con Lui vuole portarne a compimento i carismi posseduti. A dirla con l’autore, «ogni modello di prete non va più bene. Per fortuna». Questo vale per ogni stato di vita: una madre, un padre, una suora quando tendono ad un ideale lontano e difficile da imitare, incorreranno prima o poi nella frustrazione. Per grazia di Dio non siamo chiamati al “perfezionismo” piuttosto alla “perfezione del Santo Vangelo” per dirla con Chiara D’Assisi; il Vangelo è libertà e liberazione dell’uomo e della donna.
La paternità del prete nei confronti della sua comunità viene alimentata dal rapporto con il Padre celeste che lo ha chiamato al ministero e che ogni giorno lo chiama a farsi “pane spezzato” per la sua comunità e per ogni uomo che incontra nel suo cammino. La preghiera, il silenzio e la solitudine sono i luoghi privilegiati in cui il prete si riscopre “figlio amato”, bisognoso dell’amore e del perdono del Padre. Da questi momenti ricavati con fatica nella routine quotidiana, ma necessari per la sopravvivenza spirituale, il prete impara ad essere figlio e dal Padre celeste scopre che l’amore o è fecondo o non lo è. La fecondità dell’amore esige, poi, il dono della vita per i fratelli, per la comunità che gli è stata donata da Dio.

Il rapporto filiale con Dio ricuce quello strappo, quella ferita esistenziale che molti cristiani si portano dentro e che riguarda proprio l’esperienza di una filialità delusa, compromessa, frustrata, riguardo la figura paterna. La preghiera e il rapporto con Dio Padre, il quale «ci ha intessuto nelle viscere materne» e che sempre si prende cura di noi, sono rifugio, forza e liberazione per quanti in Lui confidano; Lui che custodisce i nostri cuori, guarisce le nostre ferite, rendendoci persone unificate e così, guarite in Lui, hanno il potere di guarire altri. Come disse Giovanni Paolo I nel suo breve pontificato: «Dio è Padre ma è anche madre», sintetizzando con queste parole la bellezza della “tenerezza di Dio”, caratteristica su cui ogni cristiano dovrebbe meditare.
Le ferite relazionali che ci portiamo nella nostra esperienza di vita possono essere sanate nel rapporto con il Signore e solo così impariamo a farci carico della vita altrui. Questo vale non solo per il prete/padre ma per ogni forma di vita, per ogni cristiano che vuole vivere seriamente la sequela Christi.
La solitudine, che il celibato in un certo senso custodisce, alimenta la vita interiore del presbitero, il quale, come insegna Francesco d’Assisi, sempre dovrà costruirsi una “cella interiore” pure nel fracasso della mente che rumina sulle tante attività che si devono compiere, il prete dovrà allenarsi a custodire il silenzio interiore: «Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6,6).
Si, perché il silenzio, quello che fa spazio alla Parola di Dio, non s’improvvisa ma necessita di un vero e proprio allenamento, a volte di una “battaglia spirituale” che, come insegnano i Padri del deserto, consiste nel controllo sui pensieri che giungono a distrarci nella preghiera. Dunque la solitudine può essere una compagna preziosa per il ministero del presbitero, solo quando saprà farne tesoro. Come fa notare l’autore c’è differenza tra solitudine e “abbandono”, la prima la si sceglie, il secondo lo si subisce.Quello dell’abbandono è una paura primitiva, è il timore che ogni genitore ha quando pensa alla vecchiaia, da questa paura non sono avulsi i preti anzi, la scelta del celibato forse la rende ancora più inquietante.
Solo imparando ad abitarla, la solitudine viene fecondata da Dio e il cuore del prete colmato dal Suo amore, cosicché difficilmente potranno trovare spazio sentimenti come la tristezza, l’abbandono, l’insoddisfazione. Come ci insegna la parabola lucana: «quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”.Venuto, la trova spazzata e adorna.Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima».
La casa, che è il cuore dell’uomo, deve sempre essere piena della Parola di Dio, così che ogni parola e ogni gesto del prete possano essere la parola e i gesti di Colui di cui egli è già colmo. D’altronde siamo ciò di cui ci nutriamo!
Il prete allora è interprete di Dio, il suo esegeta, che con sguardo contemplativo impara a guardare oltre e ad additare l’Oltre alla sua comunità. Solo il rapporto d’amore filiale con il Signore aiuta il prete/padre a fuggire dalla tentazione dell’accidia e del sospetto, dall’innamoramento che confonde, dal giovanilismo. Per essere il prete della fiducia, dell’attesa, dell’amore appassionato a Dio e alla comunità. Concludo con le parole dell’autore: «Solo prendendo sul serio la chiamata a diventare discepoli di Gesù, ci si ritroverà a fare il “mestiere” più bello del mondo! In fondo, quando realizzi pienamente la tua vocazione, questa ti salva».

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