26 Novembre 2025

Appunti di viaggio ottavo e nono giorno

Nel silenzio della povertà, la voce di Dio: “Tambacounda” (4)

CONCLUSIONE DELL’ESPERIENZA AFRICANA

di don Osvaldo Brugnone

“Abbiamo visto volti che parlano senza parole, mani che donano anche quando hanno poco, cieli che sembrano più grandi di quelli a cui siamo abituati. Mentre ci allontaniamo, sentiamo che nulla di ciò che abbiamo vissuto si perderà”. Con queste parole  don Osvaldo, giunto alla conclusione della sua esperienza in Senegal conclude il suo diario di questi giorni.  “Lasciamo l’Africa alle nostre spalle, ma non davvero. La polvere rossa rimarrà sulle scarpe più a lungo di quanto immaginiamo, e il suo ritmo – fatto di colori, sorrisi e silenzi profondi – continuerà a battere dentro di noi.”

OTTAVO GIORNO. Inizia una nuova settimana a Tambacounda. L’aria del mattino è sempre la stessa, con quella luce che filtra lenta e il brusio della città che si sveglia. Ormai siamo quasi alla fine di questa esperienza, lo sento in ogni gesto, in ogni volto familiare. Come ogni giorno, arrivano i Talibè. Li riconosci subito: i passi scalzi, gli abiti consumati, le ciotole di plastica che tintinnano come piccoli richiami.
Ma oggi, tra loro, noto qualcosa di diverso. Un bambino ben vestito, la maglietta pulita, la ciotola nuova di zecca tra le mani. Si muove insieme agli altri, si confonde nel gruppo, ma c’è qualcosa che stona – un dettaglio che tradisce una storia diversa. Guardando meglio, capiamo che non è un Talibè. Si è mescolato a loro per sfuggire alla scuola, per un capriccio d’infanzia, per quel desiderio di libertà che a quell’età sembra un’avventura irresistibile. Eppure, mentre lo osservo, mi colpisce come stia lì, in mezzo ai bambini che davvero non hanno scelta, che davvero devono chiedere per poter vivere. La differenza è evidente. Ma è altrettanto evidente il legame che, almeno per quel mattino, li tiene vicini: lo stare insieme. È allora che mi si chiarisce qualcosa che questa terra continua a insegnarmi, giorno dopo giorno: non basta donare. Bisogna fermarsi, guardare, condividere il tempo, la presenza. Stare. Perché è nello stare che si comprende, si impara, si restituisce davvero qualcosa. Anche quando siamo noi a pensare di essere venuti qui per dare. In realtà, a volte, siamo noi quelli che ricevono di più.
Oggi abbiamo concluso la visita nelle scuole. Appena la porta si è aperta, i settanta ragazzi si sono alzati in piedi in un unico movimento, come un respiro trattenuto e poi liberato. Nessuno ha parlato. Nessuna sedia ha strisciato sul pavimento. Ci hanno salutato tutti insieme, con un coro composto e rispettoso, e per un attimo ho sentito il silenzio diventare quasi solido. Settanta alunni in un’aula che, a guardarla, sembrava appena più  grande della nostra. Eppure nessun brusio, nessun sussurro. Solo occhi attenti, mani posate sui banchi, e quell’educazione semplice ma profonda che ti accoglie senza bisogno di parole.
Quando l’insegnante ha fatto una domanda, le mani si sono alzate ordinate, tutte allo stesso modo, come se seguissero un ritmo invisibile. Nessuno interrompeva, nessuno si agitava in quel modo un po’ caotico che da noi conosciamo bene. Una calma che non era rigida, ma naturale, come se fosse parte dell’aria stessa. E mentre osservavo quella scena, inevitabilmente mi chiedevo: E le nostre regole? Quelle che una volta ci sembravano scolpite nella pietra?
Forse le abbiamo lasciate scivolare via? Forse il troppo benessere? Forse cambiano senza che ce ne accorgiamo? Forse le viviamo diversamente? Ma lì, in quell’aula piena di compostezza e rispetto, la domanda è tornata a bussare forte. I banchi sono malandati, segnati dal tempo e dall’uso. Le pareti della scuola portano i segni di anni di pioggia e sole, e l’acqua, quella che per noi è scontata, qui manca del tutto. Il direttore ci mostra con calma i disagi quotidiani, quasi fosse la cosa più naturale del mondo convivere con la mancanza. Eppure, mentre parla, i bambini sono lì, seduti composti, gli occhi grandi rivolti verso di noi.
Ascoltano davvero. Un’attenzione limpida, rispettosa, che raramente vediamo nelle nostre aule moderne. Nessun brusio, nessuna distrazione: solo silenzio e presenza. E allora ti chiedi: che fine ha fatto il rispetto nella nostra società? Siamo diventati bravi a parlare – sempre, ovunque – ma molto meno ad ascoltare. Ognuno porta con sé le proprie verità, così solide da non lasciare spazio alla verità degli altri. Camminiamo accompagnati da pregiudizi e giudizi rapidi, come se ci bastasse uno sguardo per sapere tutto. Qui, invece, in questa terra africana lontana migliaia di chilometri dalla nostra amata Italia, la semplicità ha ancora una casa. Qui, dove manca tanto, c’è qualcosa che noi, pieni di tutto, sembriamo aver smarrito. E mentre ci avviciniamo alla fine di questa esperienza, è impossibile non accorgersi che qualcosa, dentro di noi, è cambiato. Forse è solo un seme. Ma i semi, quando trovano il terreno giusto, sanno trasformarsi. La nostra ultima sera a Tambacounda è arrivata quasi in punta di piedi, portando con sé quella malinconia lieve che precede ogni partenza. Domani ci aspetta Dakar, la capitale, e poi il viaggio di ritorno verso l’Italia. Ma stasera, mentre camminavo per le strade polverose insieme ad Antonino e Ivan, è accaduto qualcosa di semplice e prezioso.
Un bambino, spuntato quasi dal nulla, ha chiamato Ivan per nome. È stato un attimo breve, ma pieno. Ci siamo guardati, sorpresi, e in un istante abbiamo compreso la forza di quel gesto: essere riconosciuti, essere ricordati. Qui nessuno si aspetta nulla di grande da te; bastano un sorriso, un saluto, un cenno di presenza. Eppure, proprio per questo, ogni piccolo gesto diventa enorme. Mi colpiscono sempre le bambine quando ti danno la mano: lo fanno con grazia, accompagnando il gesto con un lieve inchino, come un segno di rispetto che ha il sapore di una tradizione antica. È un movimento quasi impercettibile, ma capace di scaldarti il cuore. In questa ultima sera, tra luci fioche, risate lontane e il vociare della città che non dorme mai, davvero ho capito ancora una volta quanto sia facile sentirsi accolti qui. Basta poco, a volte pochissimo. Ma quel poco rimane.

ULTIMO GIORNO E CONCLUSIONE DELL’ESPERIENZA AFRICANA. Stamattina, mentre prestavamo per l’ultima volta assistenza ai Talibè, un pensiero silenzioso mi ha attraversato la mente: «Chissà se rivedrò ancora i vostri volti?» Quegli sguardi intensi, a volte timidi, a volte fieri, resteranno con me molto più a lungo di quanto immaginassi. Di questa esperienza rimarranno i ricordi: vivi, pulsanti, pieni di quella vita che qui scorre in modo così autentico. Si dice spesso che ai bambini puoi dare qualunque cosa: soldi, giochi, tecnologia, persino abiti firmati. Ma nessuno di questi doni riesce davvero a sostituire l’amore. È l’amore, solo quello, che li guarisce e li fa respirare più larghi nel mondo. Stamattina un piccolo Talibè si è avvicinato in silenzio. Non chiedeva nulla, non voleva nulla. Si era soltanto appoggiato al braccio, come fanno i bambini quando si fidano, lasciandosi cullare da una carezza timida, quasi sorpresa. In quel gesto c’era tutto: la fame di affetto, il desiderio di sentirsi protetto, la memoria istintiva di una madre che consola. Gli altri, invece, avevano improvvisato strumenti musicali con ciò che trovavano a terra: un bidone diventato tamburo, un pezzo di ferro che suonava come un campanello, due legni che facevano da ritmo. E all’improvviso l’ultimo giorno si è trasformato in una piccola festa. Ballano, ridono, suonano, come se volessero spingere via le ombre che li abitano. Forse è il loro modo di salutarci. Forse vogliono dirci che, nonostante tutto, il loro cuore sa ancora danzare. E mentre il sole scende, è impossibile non capire la verità più semplice di tutte: ciò che abbiamo dato non sono stati oggetti, ma presenza. Ed è quella, sempre, che i bambini riconoscono. Sempre quella che ricordano. Lasciamo Tambacounda dopo aver salutato i ragazzi senegalesi della casa del centro Don Bosco 2000, che in questi giorni ci hanno accolti come fossimo parte della loro famiglia. Le strette di mano, gli abbracci, gli ultimi sorrisi: istanti piccoli e grandi allo stesso tempo. Ora siamo di nuovo in viaggio, direzione Dakar. Un tragitto lungo, quasi rituale, che sembra volerci concedere il tempo necessario per assorbire tutto ciò che abbiamo vissuto. Dal finestrino scorrono immagini che parlano da sole: uomini al lavoro ai margini della strada, bambini in uniforme che vanno a scuola, qualche Talibè che attraversa la polvere del mattino, e donne che camminano con la cesta in equilibrio perfetto sulla testa, come se portassero con sé un mondo intero. E mentre il paesaggio cambia lentamente, mi accorgo che qualcosa dentro di me è già cambiato.
Lasciamo l’Africa alle nostre spalle, ma non davvero. La polvere rossa rimarrà sulle scarpe più a lungo di quanto immaginiamo, e il suo ritmo – fatto di colori, sorrisi e silenzi profondi – continuerà a battere dentro di noi. Abbiamo visto volti che parlano senza parole, mani che donano anche quando hanno poco, cieli che sembrano più grandi di quelli a cui siamo abituati. Mentre ci allontaniamo, sentiamo che nulla di ciò che abbiamo vissuto si perderà. Lo porteremo con noi: nei ricordi improvvisi, nelle lezioni silenziose che riaffioreranno quando meno ce lo aspetteremo. E allora ricordiamoci di amare sempre: amare la vita che sorprende, le persone che incontriamo, i luoghi che ci cambiano. Perché l’Africa ci ha insegnato proprio questo – che l’amore non è una scelta, ma un modo di guardare il mondo.

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