24 Novembre 2025

Appunti di viaggio, quinto, sesto e settimo giorno

Nel silenzio della povertà, la voce di Dio: “Tambacounda” (3)

“Vorrei che chi dice ‘devono tornare nel loro Paese’, potesse vedere ciò che vedo io adesso”

Giunto quasi a metà del suo viaggio in Senegal, don Osvaldo continua a renderci partecipi attraverso il suo diario di questa particolare esperienza. Il richiamo alla preghiera del Muezzin, i piccoli Talibè che frequentano la scuola coranica; i volontari di Don Bosco 2000 che curano e preparano la colazione a questi bambini; l’orfanotrofio, l’associazione MammAfrica e l’oratorio costruito da Don Bosco 2000. Don Osvaldo con particolari dettagli ci racconta tutto questo e altro ancora “nonostante tutto, nonostante le ferite, le mancanze, le ombre, qui riescono a sorridere”.

QUINTO GIORNO. Quasi a metà della nostra esperienza senegalese, ho imparato a riconoscere i suoni che scandiscono le giornate più ancora degli orari. Dalla mia stanza, a qualsiasi ora, arriva il canto del Muezzin: una voce che si alza nell’aria, a tratti morbida, a tratti intensa, e che sembra attraversare ogni spazio della casa. La Moschea è proprio di fronte a noi, e la sua presenza è diventata parte del paesaggio così come dell’abitudine.
Di notte mi sveglio spesso, senza capire una sola parola di ciò che viene pronunciato. Eppure, i ragazzi senegalesi ci hanno spiegato che è il richiamo alla preghiera, un gesto di devozione che qui appartiene al ritmo naturale della vita. Così, mentre per gli altri è un invito sacro, per me è diventato una sorta di sveglia inevitabile – un segno sonoro che, volente o nolente, mi ricorda dove sono e quanto questa esperienza stia cambiando il mio modo di ascoltare il mondo. Questa mattina i Talibè, guidati dalla dolce presenza della volontaria Antonietta, si sono lasciati catturare dalla magia dei cartoni animati. Per loro era qualcosa di nuovo, quasi sorprendente: occhi curiosi, sorrisi timidi e quell’incanto che solo la scoperta può regalare. In un attimo la strada si è riempita di colori, suoni e piccoli stupori, trasformando un momento semplice in un’esperienza speciale. Osservo con stupore come i Talibè si aiutano. Nella polvere del mattino, tra le strade già vive di Tambacounda, li vedo muoversi come un’unica trama, fili diversi intrecciati dalla stessa necessità. Mi colpisce il loro modo di stare insieme, come se ogni difficoltà fosse una corrente contro cui ci si può opporre solo remando in molti. E mentre li guardo ridere tra loro, in quella gioia semplice e brevissima che nasce dal sentirsi meno soli, capisco che la solidarietà può crescere anche nei luoghi più spogli, come un fiore ostinato che trova spazio tra le crepe del cemento. E allora resto lì, ad osservare, e a lasciarmi insegnare qualcosa su cosa significhi davvero condividere il peso del mondo. A Tambacounda, quando il sole si alza come un disco d’oro sopra le acacie, i bambini in tunica logora si radunano davanti alla Daara. Dovrebbe essere un luogo di studio, un rifugio di parole sacre, ma da tempo qualcosa si è incrinato. Il Marabù, un uomo dall’ombra lunga, non insegna più come si dovrebbe: non trasmette la legge coranica, né la pazienza necessaria per comprenderla.
Invece manda i ragazzi per le strade, le ciotole strette al petto, a cercare offerte che non finiranno mai davvero nelle loro mani. I Talibè camminano in silenzio, ma tra loro si sostengono. Il più grande condivide con il più piccolo una noce di cola, un sorso d’acqua, una parola gentile. Sanno che nessuno verrà a difenderli, e allora imparano a essere scudo l’uno per l’altro. Quando uno torna stanco, un altro gli ruba un sorriso con una battuta; quando qualcuno è triste, gli altri gli sistemano la tunica o gli stringono la mano, e quel gesto basta a raddrizzare per un momento il mondo.
Dal bordo della strada, osservo tutto questo e mi chiedo come sia possibile che proprio loro – i più fragili, i più esposti – siano anche quelli che ricordano al mondo cosa significhi davvero la solidarietà. In un luogo dove un maestro ha dimenticato il suo compito, i bambini hanno imparato a essere maestri tra loro, a scolpire nella polvere la sola legge che conoscono davvero: quella che nasce dal bisogno di non essere soli.
Oggi mi hanno colpito le mani dei Talibè. Non so perché proprio oggi – forse la luce, o forse io – ma le ho guardate davvero, come se fosse la prima volta. Sembrano piccole, ma non lo sono: portano addosso una fatica che non appartiene all’infanzia. Sono mani scure, graffiate dal vento di Tambacounda, mani che conoscono la polvere delle strade e il peso del vuoto. Mani che si aprono ogni mattina come una preghiera e si chiudono ogni sera come un sospiro. Le ho viste tendersi verso i passanti, leggere negli occhi degli adulti una risposta prima ancora di riceverla. Ho visto come si ritraggono quando non arriva niente, o quando arriva troppo in fretta, senza uno sguardo, come se il gesto valesse più del bambino.
Eppure, in mezzo a tutto questo, c’è qualcosa che resiste. Ho visto un Talibè ridere – una risata breve, improvvisa – e quelle mani si sono trasformate. Sono diventate mani che giocano, che si rincorrono, che afferrano un amico per la maglia. Per un attimo erano mani di bambini, semplicemente bambini. Non sono mani che giocano, né mani che imparano a scrivere. Sono mani mandate fuori dai Daara, affidate alla strada e alla sua legge spietata. Eppure, nella loro immobilità apparente, continuano a crescere come radici. Quando restituiscono una moneta al maestro, tremano appena, ma trattengono una dignità antica.
Arriva da noi un Talibè, trascinando quella gamba ferita che ormai sembra pesargli più del resto del corpo. Cerca sollievo, forse guarigione, forse solo qualcuno che potesse prendersi cura di lui. Cinzia, la cofondatrice dell’associazione DonBosco 2000, e Antonietta si mettono subito all’opera, con quella calma ferma, materna e sicura che solo chi è abituato a lenire il dolore degli altri riesce ad avere. Io, invece, rimasi qualche passo più indietro. Li osservo mentre preparano la medicazione, ma il mio sguardo si ferma sempre un po’ prima della ferita, come se avesse paura di andare oltre. E quando il bambino inizia a piangere, un pianto sottile prima, poi sempre più disperato, sento qualcosa stringermi dentro. Mi allontano. Non riesco a reggere quel suono, né le lacrime che gli si raccolgono agli angoli degli occhi. Ogni suo singhiozzo mi arriva addosso come un colpo, e l’unica cosa che posso fare è distogliere lo sguardo, sperando che la cura, almeno, gli porti un po’ di pace.

Nella tarda mattinata il sole filtra tra le case, caldo ma non ancora opprimente, quando siamo arrivati alla scuola coranica. Da fuori si sente già il mormorio delle voci dei bambini, un canto sommesso che si intreccia al silenzio del giorno di riposo. I piccoli tutti ammassati, immersi nella preghiera e nello studio. Il loro sguardo, serio e concentrato, sembra sospeso tra l’infanzia e la sacralità del momento. Il Marabù (uno dei pochi che rispetta e si batte per i diritti dei bambini), il loro insegnante, ci è venuto incontro con passo quieto. Aveva un portamento composto, quasi solenne, ma quando ha sorriso si è sciolto ogni timore: un sorriso ampio, sincero, che accoglie senza chiedere nulla in cambio. Anche i bambini, alzando lo sguardo, sorridono a loro volta, e in quell’istante l’austerità della scuola si è trasformata in un luogo di calore umano.
Mi ha colpito profondamente quell’accoglienza semplice, fatta di gesti e sguardi più che di parole. In quel piccolo spazio, lontano dal frastuono del mondo, ho sentito la forza tranquilla della loro fede e la dignità della loro quotidianità.
Poi siamo andati all’orfanotrofio di Tambacounda. Le stanze sono silenziose, abitate da bambini senza genitori: alcuni morti, altri scomparsi, altri ancora che hanno semplicemente smesso di cercarli. Quello che mi ha colpito più di tutto è stata una bambina, seduta per terra, proprio al centro della sua stanza: immobile, come se il mondo intorno a lei fosse troppo grande per essere affrontato. Mi ha guardato con occhi profondi, senza dire nulla. E in quel momento ho pensato soltanto una cosa: sei sola.
Il tardo pomeriggio ci ha accolti con una luce morbida, quasi polverosa, quando siamo andati a trovare una bambina albina di Tambacounda. Avrà avuto dieci, forse dodici anni. La sua storia, però, sembra molto più grande di lei. Abbandonata dai genitori e poi accolta da un’altra famiglia, non è mai stata registrata all’anagrafe: per la società, è come se non esistesse. Eppure lei… lei sorride. Un sorriso vivo, sorprendente, che scalda più del sole di fine giornata. Una bambina vivace, piena di energia, capace di sollevare lo sguardo anche quando il mondo intorno sembra volerlo abbassare. È questo che mi stupisce sempre di questo posto: nonostante tutto, nonostante le ferite, le mancanze, le ombre, riescono a sorridere. Sempre. Un sorriso che non nasconde la sofferenza, ma la sfida. Un sorriso che è resistenza, bellezza, speranza.

SESTO GIORNO. La mattina arriva lenta, ma i Talibè sono già in fila. Amano il pane con la frittata, lo aspettano come un piccolo dono, e oggi sono più numerosi del solito. Mi sorprende sempre questa folla silenziosa, ordinata, fatta di occhi che osservano e sorrisi che resistono. Guardo Cinzia mentre si muove tra loro. Le sue mani sicure, la pazienza con cui cura le ferite, l’attenzione con cui ascolta ogni dolore. C’è un amore discreto nei suoi gesti, una passione che non ha bisogno di parole. E mentre la osservo, osservo anche loro: quei sorrisi che spuntano nonostante tutto, nonostante la polvere, la fame, la fatica. E mi chiedo perché noi, dall’altra parte del mondo, siamo sempre così insoddisfatti. Abbiamo tanto, a volte troppo, eppure ci complichiamo la vita per un’inezia. Cerchiamo visibilità, riconoscimento, potere. Non basta mai. Non siamo mai sazi. Loro invece sì, o almeno sembrano esserlo. Non di cibo, non di sicurezza – quelle mancano – ma di un modo di stare al mondo che conserva dignità e semplicità. Forse è per questo che capisco, ora più che mai, perché molti scappano.
Non per capriccio, non per ambizione. Solo per cercare un luogo più sicuro, un po’ di pace, una possibilità.
Vorrei che chi dice “devono tornare nel loro Paese” (come se fossero pacchi o oggetti da spedire), potesse vedere ciò che vedo io adesso (vorrei che gli uomini di potere o coloro che fanno leggi ingiuste a discapito dei migranti potessero vivere come vivono loro). Camminare in queste strade, sentirne l’odore, guardare negli occhi questi bambini. Forse capirebbe cosa significa vivere davvero qui (ma gli occhi a volte sono così accecati e pieni di odio, come se noi occidentali dovessimo difendere chissà quali confini). E io, nel mezzo di tutto questo, realizzo che i miei problemi, le mie ansie quotidiane, i miei piccoli drammi non sono nulla. Non reggono il confronto con la realtà che ho davanti. È come se questo luogo mi avesse preso per mano e mostrato la proporzione delle cose. E ora, finalmente, la vedo anch’io.
Prima di pranzo abbiamo visitato l’associazione MamaAfrica, a Tambacounda. Le stanze sono semplici, attraversate da voci e movimenti leggeri, eppure si percepisce un’energia viva, una cura concreta. Lì, tra volontari e operatori, abbiamo incontrato i bambini che l’Associazione accompagna ogni giorno: piccoli che la strada ha ferito troppo presto, altri che convivono con disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e disabilità, dove trovano un tempo più lento, uno sguardo che li riconosce. È stato un momento prezioso, quasi sospeso, per conoscere da vicino le realtà che, spesso in silenzio, tengono in piedi questo territorio. Ogni Associazione con il suo ritmo, il suo carisma, la sua parte di bene da donare. Guardandole lavorare si capisce quanto sia vero: con i poveri non si scherza. Non c’è spazio per primi posti, per competizioni o visibilità. C’è solo il bene da fare – e farlo davvero, con umiltà, senza lasciarsi distrarre dall’idea di apparire. E mentre usciamo, con la polvere rossa che ci segue fino alla strada, resta impressa la sensazione che il bene autentico non fa rumore. Ma si vede, e soprattutto si sente. Stamattina sono rimasto colpito da una scena semplice eppure sorprendentemente profonda. Un Talibè, con gli occhi grandi e attenti, si è avvicinato ad Antonietta, la nostra volontaria dal sorriso buono. Nella sua mano stringe una caramella, l’unico piccolo tesoro che possiede. Con un gesto timido ma deciso, ha voluto offrirgliela. Un dono minuscolo, e proprio per questo enorme.
La vita è strana: spesso siamo portati a pensare che siano i grandi a dare e i piccoli a ricevere. E invece, proprio da loro, da chi ha così poco, arrivano le lezioni più luminose. In quel gesto c’e gratitudine, fiducia, un desiderio puro di ricambiare. E per un attimo, tutto si è fermato, lasciando spazio a quella dolcezza che non si compra e non si pesa, ma si sente.
La giornata si è chiusa con la luce dorata del pomeriggio che avvolge l’oratorio costruito dall’Associazione Don Bosco 2000. Un luogo nato per accogliere i bambini di Tambacounda e dei villaggi vicini, un punto d’incontro dove le distanze si accorciano e i sorrisi si moltiplicano. Appena varcato l’ingresso, l’aria si è riempita del rumore leggero delle risate, del battere dei passi scalzi sulla terra, della gioia semplice che nasce dal sentirsi liberi. In quello spazio protetto, ogni bambino può vivere un momento di spensieratezza pura, quella che dovrebbe essere un diritto naturale dell’infanzia. E mentre la natura intorno a noi respira lenta – gli alberi mossi dal vento, il cielo che cambiava colore – ci siamo lasciati coinvolgere. Abbiamo riso, giocato, osservato la felicità esplodere sui loro volti come se fosse la cosa più naturale del mondo. Grazie alla vita, alla terra che ci circonda e a quei piccoli grandi occhi pieni di meraviglia, abbiamo condiviso con loro un frammento di gioia autentica. Dal 2018 l’Associazione Don Bosco 2000 apre un ponte tra l’Italia e Tambacounda, offrendo a diversi volontari la possibilità di trascorrere lì un mese d’estate, immersi nella vita dei ragazzi del posto e dei villaggi vicini. Ogni anno, quando il viaggio comincia, non portano con sé soltanto zaini e valigie, ma il desiderio sincero di mettersi a disposizione. E appena arrivati, si ritrovano circondati da sorrisi curiosi, mani tese, voci che chiedono attenzione. In quel primo incontro nasce qualcosa di semplice e potente: la possibilità di donare spensieratezza, gioco, tempo condiviso. Giorno dopo giorno, tra attività, giochi, chiacchiere e momenti di quotidiana meraviglia, i volontari imparano che la gioia è contagiosa e che basta poco per costruire legami profondi. Così, ogni estate, questo scambio diventa una tradizione che arricchisce tutti: i ragazzi che ricevono cura e presenza, e i volontari che scoprono quanto sia grande ciò che si riceve quando si sceglie di donare. Amarà ci accompagna in ogni tappa del nostro viaggio. È il coordinatore del centro di Tambacounda, ma per noi è molto più di questo: è una presenza costante, un ragazzo cresciuto in questa terra che ne conosce usi, storie e segreti. Con passo tranquillo e sorriso discreto, ci fa da guida e da interprete del luogo, quasi fosse un angelo custode che veglia su di noi senza mai stancarsi.
Per noi volontari non mancano i momenti di incontro e condivisione. Tra tutti, il cuore pulsante delle nostre giornate è la Santa Messa, i Vespri o la Compieta celebrata nella piccola Cappella del centro. Lì, tra canti semplici e silenzi intensi, troviamo un punto fermo, un luogo dove ritrovarci e ritrovare il senso profondo del nostro essere qui.

SETTIMO GIORNO. La domenica, a Tambacounda, non ha il rumore dei cori da stadio né il fruscio delle maglie nuove. Ha invece il suono secco di un pallone tutto stracciato che rimbalza su una terra rossa e calda. I bambini corrono scalzi, le ginocchia polverose, e ridono come se niente potesse fermare il loro gioco. Il sole alto disegna ombre sottili, e ogni passaggio è una promessa di felicità. Quel pallone, consumato e fragile, passa di piede in piede come un tesoro prezioso. Le loro voci si intrecciano nell’aria, pure e leggere, mentre la polvere danza dietro a ogni scatto improvviso. A migliaia di chilometri di distanza, in Occidente, è domenica anche lì. Le strade si svuotano, le famiglie si preparano davanti a schermi luminosi, le tribune si riempiono di colori e di canti. Lì il calcio è uno spettacolo, un rito, una tradizione, soldi e successo. Qui, a Tambacounda, è un sogno che sopravvive nonostante tutto. Eppure, negli occhi di quei bambini c’è una luce che nessuno stadio potrà mai replicare: la certezza che la gioia non dipende da ciò che si possiede, ma da ciò che si vive insieme. Anche se il pallone è solo un guscio di stoffa consumata.
In mezzo a questa apparente distanza, due mondi così diversi si sfiorano per un istante. Lo stesso gioco, lo stesso desiderio, lo stesso cuore. Due domeniche lontane, unite da un pallone che rimbalza, ancora una volta, sulla terra rossa.
Questa mattina, dopo aver assistito i Talibè, ci siamo recati alla Cattedrale di Tambacounda per partecipare alla Santa Messa. Appena arrivati siamo stati accolti con calore dal parroco, in un clima semplice e familiare. La celebrazione è stata animata da una corale che, con i suoi canti tipici africani, ha riempito la chiesa di ritmo, colori e un’intensità difficile da dimenticare. La Messa è molto partecipata dai cristiani del luogo, una piccola comunità in un Paese dove i cristiani rappresentano appena il 3 per cento della popolazione. Eppure, nonostante i numeri, la Chiesa qui appare sorprendentemente viva, libera da schemi rigidi e capace di esprimersi in modo autentico. La Cattedrale, affidata ai salesiani, non è solo un luogo di culto: è anche uno spazio di incontro e di gioia per i ragazzi di Tambacounda, un punto di riferimento dove possono ritrovarsi, giocare e crescere accompagnati da una presenza educativa.
Una mattinata semplice, ma ricca di umanità e di luce. Abbiamo terminato la giornata immersi nella natura, lasciandoci avvolgere dai suoi suoni e dalla sua pace. Gli animali, liberi e maestosi, si muovono attorno a noi come parte di un ordine più grande, mentre il fiume Gambia scorre lento, regalando un sottofondo costante e rasserenante. In quel silenzio vivo e pulsante, è facile riconoscere la presenza di Dio: nella natura, nella sua bellezza, e nel nostro stesso respiro.

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