19 Novembre 2025

Appunti di viaggio

Nel silenzio della povertà, la voce di Dio: “Tambacounda”

di don Osvaldo Brugnone

Don Osvaldo Brugnone, direttore dell’ufficio Migrantes della diocesi di Piazza Armerina si è unito all’ennesima missione di Don Bosco 2000 alla volta di Tambacounda in Senegal, guidata da Antonino Sella, socio fondatore dell’Associazione, insieme a Ivan Petrigna, e ad Antonietta Cucco.
Il viaggio ha un duplice obiettivo: conoscere da vicino la realtà senegalese e sostenere una straordinaria raccolta fondi destinata ai bambini e al dispensario medico  a Velingara Pont in una struttura di circa 12 metri per 15, che salverà la vita di moltissimi bambini, donne e uomini.

Don Osvaldo ci racconterà dal Senegal questo particolare viaggio con il suo diario che condividerà con i nostri lettori ogni due giorni

PRIMO GIORNO. Arrivo a Dakar e lungo viaggio verso Tambacounda. Siamo in quattro, ognuno con storie ed esperienze diverse sulle spalle, ma accomunati dallo stesso sguardo curioso. Appena metto piede fuori dall’aeroporto, Dakar mi avvolge come un’onda calda: l’odore della sabbia rossa, il fumo delle griglie improvvisate lungo le strade, il profumo pungente delle spezie. Già sento l’Africa respirare intorno a me. Il traffico scorre come un fiume irrequieto, un intreccio di clacson, motorini e taxi giallo-neri che sembrano muoversi seguendo un ritmo tutto loro. Le voci, la musica, i colori: tutto è più forte, più vicino, più vivo.

Partiamo quasi subito verso l’interno, dove la città lascia spazio a paesaggi che cambiano lentamente. La strada si allunga davanti a noi, infinita, mentre fuori il mondo diventa più secco, più vasto, più sincero.

Attraversiamo strade dove i bambini corrono scalzi accanto alla polvere sollevata dal nostro passaggio, donne che trasportano cesti sulla testa con un’eleganza naturale. Il viaggio è lungo, ma non pesante. Nel silenzio dell’auto emerge una strana calma, come se ognuno di noi stesse già iniziando a capire che questo posto ha un suo modo unico di farti rallentare, di costringerti ad ascoltare. Le conversazioni nascono e muoiono spontanee, mentre vediamo sorgere il sole sopra di noi. Quando finalmente intravediamo Tambacounda, arriviamo stanchi, ma con quella sensazione elettrica di chi sa di essere appena entrato in un mondo diverso, pronto a mostrare il meglio e il peggio, senza maschere. È solo il primo giorno, ma sento che questo viaggio avrà il potere di cambiare qualcosa in ognuno di noi.

Attraverso le strade rosse che portano a Tambacounda, l’aria odora di sabbia calda, benzina e mango troppo dolce. A ogni curva, la città sembra spostarsi un po’ più in là, come se non volesse farsi raggiungere troppo in fretta. È allora che li vedo. I Talibè escono dai vicoli come piccoli uccelli in cerca di briciole. Non parlano subito; prima osservano. Sono bambini dagli occhi grandi, neri e profondi, occhi che sanno più anni di quanti ne possano contare le loro mani sottili. Qualcuno porta una ciotola di plastica, altri un barattolo di metallo battuto.

Le loro tuniche sono consumate, ma i loro passi sono leggeri, abituati al caldo, alle pietre, alla polvere. Si avvicinano con timidezza e coraggio insieme. Uno di loro, il più piccolo, non avrà più di sei anni. Ha un sorriso largo, improvviso, che illumina tutto: il vicolo, la strada, persino Tambacounda che sembra avvicinarsi, addolcita da quello sguardo. Accanto a lui, un ragazzo più grande si fa avanti. Non chiede soldi; chiede il mio nome. Lo pronuncia malvolentieri, inciampando sulla “s”. Poi mi dice il suo: Ibrahima. Poi il mio: Osvaldo. E loro in coro pronunciano il mio nome. È stanco, ma non sconfitto. In lui c’è una dignità che brilla attraverso la polvere. Un vecchio autobus passa sputando fumo, e quando la nube si dissolve i bambini sono ancora lì, immobili, come figure di un racconto antico. Per un momento, tutto sembra sospeso: la strada, la città, persino il mio viaggio. Da un venditore ambulante beviamo un Nescafè. Poi la vita riprende, rumorosa e sincera.

Ibrahima stringe la mano del piccolo, gli altri si dispongono attorno a loro come un piccolo branco nomade. Mi salutano con un cenno, e si allontanano verso un altro tratto di strada, un altro viaggiatore, un altro giorno da attraversare. Rimango a guardarli. Alcuni roviscano tra l’immondizia. E capisco che a volte, incontrare qualcuno per un solo istante può cambiare l’intero viaggio.

Un colpo leggero, quasi timido. Fuori, nel chiarore dorato della polvere africana, si intravedevano i primi talibé.

Appena entrano, il silenzio lascia spazio a una fiducia trattenuta: quegli sguardi, abituati a chiedere senza sperare troppo, si addolciscono nel calore dell’accoglienza. Sul tavolo già pronti acqua fresca, caramelle e qualche medicinale. Uno alla volta, come in un rito semplice e antico, i bambini vengono curati. Qualcuno si  siede composto, qualcun altro fa il coraggioso stringendo i denti mentre il disinfettante brucia un poco. Ma ogni ferita pulita, ogni sorriso che torna, sembra alleggerire l’aria. È  allora che diventa chiaro: quel gesto semplice – curare, sfamare, ascoltare è un seme. Piccolo, forse. Ma capace di mettere radici nel cuore di chi lo riceve e di chi lo compie. Quando i bambini se ne vanno nell’aria rimane la sensazione di aver fatto qualcosa che conta, qualcosa che scalda più del sole di Tambacounda: aver ricordato a quei piccoli che non sono soli. Il pomeriggio scivola lento mentre ci avviamo verso il villaggio di Velingara.
La strada, polverosa e quieta, sembra aprirsi davanti a noi come un invito. Appena arrivati, il capo villaggio e sua moglie ci vengono incontro: i loro sorrisi sinceri dissipano all’istante ogni distanza. Ci accolgono con una gentilezza che non ha bisogno di parole. Nelle loro mani tese, nei gesti misurati e calorosi, si percepisce un’antica consuetudine all’ospitalità. Il villaggio, immerso in una calma luminosa, sembra custodire un ritmo diverso, più umano. Intorno a noi si respirano cordialità, amicizia, e quel raro sentimento di pace che solo alcuni luoghi sanno donare. In quel momento, Velingara non è soltanto una tappa del nostro viaggio: è un incontro, un abbraccio, un frammento di serenità da portare con sé. Per le vie di Tambacounda, la sera scende senza fretta, come una tenda leggera che non riesce mai a oscurare del tutto il brulichio della città. Il mercato, ormai quasi chiuso, rimane un groviglio di banchi sgangherati, cassette vuote e tela cerata, ma l’odore africano – polvere calda, frutta troppo matura, carbone, sudore e spezie – continua a impregnare l’aria come un respiro antico. La poca illuminazione getta coni d’ombra tremolanti sulle strade. Le lampade pubbliche, quando funzionano, sputano luce gialla che si perde subito nella polvere sospesa. Più avanti, una bancarella improvvisata arde di brace: un uomo gira brochettes ardenti mentre una radio gracchia musica mbalax, lontana e frenetica. Tanta gente cammina o sosta ai bordi della strada, alcuni seduti direttamente sulla terra battuta, altri sdraiati in un mosaico di stoffe e sacchi. Parlano piano, contrattano, ridono, si muovono in un flusso continuo che non è mai davvero caos, più un ritmo inviolabile che a Tambacounda sembra conoscere da sempre. In mezzo alla folla intravvedo alcuni talibé, con le loro ciotole di metallo e le tuniche larghe.
Camminano silenziosi, quasi invisibili, come ombre leggere che scivolano tra i passanti. Qualcuno allunga una moneta, qualcun altro li ignora; loro avanzano comunque, come se seguire quel percorso fosse l’unica cosa certa nella loro giornata. E mentre la notte si addensa sopra i tetti bassi, Tambacounda continua a respirare: caldo, polveroso, vivo. Un luogo che non si svela mai completamente a chi lo attraversa, ma lascia addosso una traccia – una vibrazione – difficile da dimenticare.

SECONDO GIORNO. All’alba Tambacounda ha un rumore lieve, quasi un respiro. L’aria è fresca, ancora incerta, e nella penombra del cortile iniziano ad arrivare i talibé. Uno alla volta, poi a gruppetti, finché diventano una piccola folla silenziosa. Sono una trentina, forse qualcuno in più, con quegli occhi che sanno di strada e di notti troppo lunghe per bambini così piccoli. Li accogliamo come ogni mattina. Il profumo del latte caldo si mescola a quello del pane appena tagliato. Mettiamo un po’ di maionese, come piace a loro, e per un momento sembra tutto semplice: mani che porgono, mani che afferrano, sguardi che ringraziano senza parole. Ma la colazione è solo l’inizio. Hanno bisogno di essere lavati. La polvere del giorno prima si è infiltrata ovunque: tra le dita, nei capelli, nei vestiti troppo grandi. L’acqua scorre, e con l’acqua qualche sorriso, qualche timido gesto di fiducia.  Poi arriva il momento di asciugarli. L’asciugamano è ruvido, ma quando lo appoggio sulla loro pelle mi sorprende ogni volta la stessa sensazione: come se quel gesto semplice, quasi banale, fosse una carezza che attendevano da tempo. Come se il tessuto, passato sulle spalle e sul viso, potesse diventare un abbraccio. E io, in quel momento, sento che non sto solo pulendo un bambino. Sto restituendo un po’ di dignità, un po’ di calore, forse un filo di amore che la vita, fino a ieri, non aveva concesso loro. Tambacounda si sveglia piano, mentre loro – uno dopo l’altro – si lasciano accogliere. E tra il latte, il pane e l’asciugamano, ricordo perché siamo qui: per trasformare piccoli gesti in qualcosa che assomiglia alla cura. E alla speranza.

Stamattina il villaggio ci ha accolti con quel silenzio sospeso che precede le confessioni più dolorose. Siamo entrati nella piccola casa di una donna, il volto scavato dal tempo e dalla fatica. Quattro figli le giravano attorno come satelliti fragili, ma l’assenza di uno era un vuoto che si sentiva nell’aria, pesante, quasi fisico. Solo un mese fa ha perso il suo ragazzo di diciassette anni. Il dolore le si legge negli occhi, ma non c’è spazio per fermarsi: la povertà non contempla il lutto, pretende che si continui, che ci si alzi ogni giorno comunque. E così lei resta lì, retta come può, in quell’equilibrio impossibile tra la sofferenza e la necessità. Poi ci siamo spostati nella scuola del villaggio. Una stanza semplice, con i muri consumati e la polvere che entra da ogni fessura. Una trentina di bambini ci guardava con occhi curiosi e luminosi, nonostante fossero scalzi, sporchi, con i vestiti consumati dal tempo. Eppure, tra quelle mani piccole e quei sorrisi improvvisi, c’era una forza indescrivibile: la forza di chi, pur avendo così poco, riesce a custodire ancora un desiderio, una speranza. E tu, davanti a tutto questo, puoi solo restare in silenzio. Guardare. Ascoltare. E lasciare che qualcosa dentro di te cambi per sempre.
Siamo andati nelle case delle famiglie più povere di Tambacounda (all’Italiana, fare caritas e distribuire viveri). Una povertà che non si può raccontare, che ti entra negli occhi e nello stomaco, che ti fa sentire piccolo e privilegiato senza volerlo. I bambini ci correvano incontro con quel sorriso che non conosce misura, un sorriso che sembra resistere a tutto, persino alla miseria. Due calci a un pallone consumato, la polvere che si alza, le loro risate che si intrecciano con le mie. E in quel momento, mentre gioco con loro, ritorna la mia infanzia.
Rivedo il me stesso bambino, libero, sudato, felice per un niente. E capisco che la felicità, forse, è proprio lì: in quei due calci, in quel sorriso, nel sentirsi parte di qualcosa di semplice e vero.

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