La continuità con Francesco è una scelta chiara…
La prima esortazione apostolica di Papa Leone XIV, firmata il 4 ottobre, festa di San Francesco è il documento che rimanda al tema già approfondito da Papa Francesco nell’Enciclica Dilexit nos sull’amore divino e umano di Cristo ed è un programma che l’attuale Pontefice ha fatto suo, condividendo con il Predecessore il desiderio di far comprendere e conoscere il vincolo tra quella che è la fede e il servizio ai vulnerabili; il legame indissolubile tra l’amore di Cristo e la sua chiamata a farci vicini ai poveri. L’esortazione apostolica è davvero il testamento dell’amato Papa Francesco ed è abbastanza significativo che Leone XIV ne ha raccolto l’eredità e abbia scelto di ripartire dai poveri o, meglio, dalla povertà per dire la sua continuità col predecessore. Appare abbastanza significativo che il primo documento magisteriale di Leone sia sulla povertà – il povero è il luogo della rivelazione di Dio – e il ruolo dei poveri nella Chiesa è indispensabile per essere fedele alla sua missione. Con questa esortazione apostolica il Papa ha ribadito che l’amore, originato da Dio – che è Amore – si fa povero per accogliere ogni altro povero, perché impastato della povera e fragile umanità; ecco perché i poveri sono i suoi prediletti e questi sono nel cuore del Vangelo, non si tratta di «beneficenza» ma di cristianesimo. In altri termini va precisato che sulla scia di Papa Francesco, Papa Prevost ha voluto ricordare che la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al suo Signore che si è fatto povero – egli pur essendo Dio svuotò sé stesso il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma svuoto sé stesso, assumendo la condizione di povero/servo – (Fil. 2,6-11) è la risposta d’amore a Lui e questa trabocca d’amore – vuoto ospitante – verso coloro che sono poveri. Prendersi cura degli ultimi, scrive, fa parte pienamente della «Rivelazione», della missione stessa della Chiesa[1].
L’impianto nella sua struttura in cinque capitoli
Andiamo per ordine: l’esortazione, Dilexi te, è strutturata inizialmente con una breve introduzione e poi seguono cinque capitoli che le danno corpo e affrontano la povertà e la carità cristiana. Questi cinque capitoli mi fanno pensare al Pentateuco e ai precetti della Chiesa e sono: ‟Alcune parole indispensabiliˮ, ‟Dio sceglie i poveriˮ, ‟Una chiesa per i poveriˮ, ‟Una storia che continuaˮ e ‟Una sfida permanenteˮ. Il testo in 121 numeri e parte da Dio amore; essa per comprendere il senso della scelta dei poveri ha bisogno di ripartire dall’amore – originato in Dio perché Dio è amore – e dall’amore che in Gesù trova la sua alta espressione. Successivamente passa in rassegna la Scrittura, la vita di Cristo la storia della Chiesa, e le opere di carità fino alle sfide attuali, concludendo con tre vie pratiche per vivere la vocazione alla prossimità. Mi sembra che il Pontefice ci chieda di prendere coscienza piena di noi poveri, in quanto fragili, nella consapevolezza che noi per primi facciamo l’esperienza di esse amati da Dio e altresì chiamati a dare una svolta alla nostra personale adesione alla fede e alla vita della chiesa e quindi il Papa ci pone dinanzi alla responsabilità di chi siamo e di che cosa con noi, nella nostra singolarità e come comunità Chiesa, vogliamo essere in quando discepoli di Gesù. In altri termini ci chiede di non ‟giocare” su questo tema, perché i poveri per noi sono una dimensione ontologica, costitutiva, identitaria del cristianesimo. Ovviamente non è facile per la Chiesa, e per i pastori, parlare di povertà perché, in primo luogo, il modo e la sostanza della povertà della Chiesa non sono quelli degli Stati. La parola povertà ha nel cristianesimo un’ombra molto ampia, che va dalla povertà cattiva – perché non scelta, ma subita -, fino alla povertà evangelica scelta per essere discepoli, del povero per eccellenza che è Gesù, a questi discepoli e poveri Gesù chiama ‟beatiˮ. La Chiesa dovrebbe muoversi all’interno di questa ampia ombra ed entrarci dentro perché, non può lasciare fuori una delle due forme di povertà. Ella se non si fa povera e se non si fa prossimo dei poveri – in quanto la povertà la subiscono – rischia di ritrovarsi fuori dal Vangelo.
La sintonia del magistero papale con il magistero del nostro vescovo
In Dilexi te Papa Leone ci ‟esorta” a cambiare rotta, pensare ai poveri non come un problema della società né, tantomeno, unicamente come ‟oggetto della nostra compassione”[2] ma come attori reali a cui poter dare voce sino a dargli la dignità di ‟maestri del Vangelo”, perché fanno esperienza e sono parte della comunità. È necessario che ‟tutti ci lasciamo evangelizzare dai poveri. Essi – scrive ancora il Papa – sono una questione familiare. ‟Sono dei nostri”. Pertanto ‟il rapporto con loro non può essere ridotto a un’attività o a un ufficio della Chiesa”[3]. Si tratta di prendere sul serio la povertà evangelica e ciò significa cambiare punto di vista, fare metanoia, dicevano i primi cristiani. In diocesi il nostro vescovo Mons. Rosario Gisana anni fa in vari tratti esortò la nostra chiesa locale in tal senso. In una nota pastorale nel dicembre del 2014, che portava come titolo: ‟Misericordia voglio e non sacrificioˮ, scriveva: «Se vogliamo crescere nella conoscenza di Dio, non possiamo prescindere dalla presenza dei poveri. I poveri ci aiutano a conoscere meglio Dio, a entrare in relazione più intima con Lui, nell’ottica del monito di Gesù: Misericordia voglio e non sacrificio»[4] e successivamente per il triennio pastorale 2021/24 offrì, alla diocesi, la proposta, scaturita dall’ascolto della Parola e della storia, di un progetto pastorale che partisse proprio dalla povertà della Chiesa e imparasse dai poveri perché «Nei poveri è custodito il vangelo». Egli così scriveva: Ripentendo Papa Francesco, che ‟«La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada». Tale orientamento porta a distinguere tra carità e povero. Le opere di misericordia sono un aspetto della vita cristiana alle quali aderiamo per ragioni discepolare. La carità evangelica, infatti, va oltre i gesti di filantropia: servendo i poveri, incontriamo Cristo e tocchiamo fisicamente la sua carne. Il povero invece, da un punto di vista esistenziale, è una «categoria teologale», perché nel contatto con la sua povertà impariamo a conoscere il vangelo. Egli, per un misterioso progetto di Dio, lo custodisce e lo insegna indirettamente attraverso il suo bisogno. Inoltre, nella sua presenza si intravede l’azione messianica di Cristo: l’atto redentivo che Dio sta portando a compimento nella storiaˮ[5]. Credo che, se il magistero di Papa Francesco prima e oggi Leone XIV e nel magistero locale del nostro Vescovo, Dio insista vuol dire che c’è esplicitata una traiettoria da compiere. Balza con evidenza che è necessario cogliere nella povertà l’indicazione del cammino della sua chiesa. Credo che davvero si tratta di andare in profondità su questo tema per coglierne i segni così da compiere una conversione vera e piena.
La Chiave Cristologia per leggere e fare propria la scelta discepolare
Tornado alla esortazione Dilex te, nel testo si legge che «la carità non è un percorso opzionale, ma il criterio del vero culto». È una risposta a chiunque crede di poter separare vita spirituale e cura di chi soffre. Questo passaggio è splendido: il culto autentico è l’amore che diviene capace di farsi povero – in senso Cristico – sino in fondo per accogliere i poveri e farsi loro prossimi. Ovviamente la tentazione di una fede intimistica e disincarnata c’è sempre stata nella storia, e oggi forse è molto forte. È un modo di cullarsi in una sorta di ‟eterno abbraccio di dolcezza”, spesso solo sentimentale, il quale, se resta l’unico modo di vivere la fede, ne diventa la negazione, perché la nostra è una fede incarnata, in quanto Cristo è diventato uomo e nelle piaghe dell’umanità ci ha salvato. Poi ci sono sicuramente diverse sensibilità, ma senza questa attenzione alle ferite degli uomini non possiamo dirci nemmeno cristiani. Leone XIV chiede anche di scardinare i «pregiudizi ideologici» sulla povertà, tranelli in cui cadono i potenti della terra, ma spesso anche i cristiani… A volte, in realtà, rifiutare i poveri in modo ‟ideologico” è solo un modo per fuggire da sé stessi, per non essere in contatto con la propria povertà. Perché l’essere umano è ‟strutturalmente” povero, cioè non autosufficiente e fragile. Credo che sia proprio la chiave cristologica – contemplando il Cristo, il quale si è fatto povero e nella Pasqua ha svelato il mistero di Dio amore e tutto sé stesso – ad aiutarci a leggere questa esortazione. San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi afferma: «Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Del resto, i Vangeli ci offrono un’immagine e un contesto della vita terrena di Gesù molto semplice per quello che riguarda il suo stile di vita. Sappiamo anche che Gesù e i suoi amici con cui condivideva la missione vivevano di provvidenza, ovvero affidandosi di volta in volta alla generosità di conoscenti, amici che provvedevano ai loro bisogni. Il testo lucano, infatti, di tale condivisione ci offre uno spaccato: «In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio. (Lc 8,1-3). Ma è soprattutto alla fine della sua vicenda terrena che Gesù mostra tutta la sua povertà: un uomo rifiutato, osteggiato, condannato, abbandonato dai suoi, sino a sperimentare l’abbandono del Padre; Egli conclude la sua esistenza nudo e muore solo ignominiosamente sulla croce, il patibolo più crudele dei tempi, riservato agli schiavi e ai peggiori criminali. Gesù muore poverissimo, ma rimane aperto al volere del Padre e in Lui ripone il suo spirito. Gesù nella sua Pasqua raggiunge l’apice della povertà e dell’amore, Lui è il povero per eccellenza. Il discepolo e la Chiesa intera sono chiamati non solo ad amare i poveri nei quali egli si è identificato, ma ad essere Gesù vivo. Chi in Lui si identifica vive il suo abbandono, facendo sua la povertà per lo spirito e vive la fede di Gesù; La fede di Gesù – in quanto uomo – nei riguardi del Padre suo va assimilata anche da parte del discepolo. La fede di Gesù vissuta diviene puro Amore verso il Padre e tale Amore trabocca per i fratelli. Gesù è il povero e il fedele per eccellenza e per questo si è identificato con i poveri, Lui è lì, sempre, proprio là dove tutto scompare. Egli è in ogni situazione di povertà della nostra dignità: negli imprevisti, nelle calunnie, è nei tradimenti, nelle maledizioni, nel non amore, nelle tenebre, in tutte situazioni per questo ci si può riconosce in Lui e vivere come Lui. In altri termini si tratta di acquisire la fede di Gesù e avendo la fede in Gesù ci si può consegnare al Padre e si può raggiungere l’uniformazione al Figlio che ci ha fatti figli del Padre. Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal. 2,20a). La sua sofferenza, dunque, diventa un punto di riferimento per i poveri e per chi si fa povero per somigliargli. Tutti queste precisazioni ci mostrano la povertà interiore ed esteriore di Gesù e da questi dati trasuda il riflesso di una più sublime povertà, quella dello spirito, esaltata da Gesù stesso: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli» (Mt 5,3). E questa è la più vera e profonda condizione di povero da parte di Gesù. Il povero di spirito è chi non ha nulla da difendere perciò è libero tanto che è distaccato da ciò che sembra avere, che non afferma un proprio possesso. Solo chi si fa povero come Gesù può vivere tale distacco dai beni materiali perché è già pieno d’altro, della pienezza del Padre che lo colma e anche umanamente lo realizza. Per questo il Signore Gesù, più volte nel Vangelo, avverte del pericolo delle ricchezze terrene, giacché con esse – subendone l’inganno – rischiamo di distogliere dalla vera ricchezza umana che è Dio stesso. Così, al di là della condizione di ricchezza o povertà materiale di ciascuno, Gesù rimane per tutti il grande paradigma dell’uomo che divine discepolo di Lui. Il discepolo pone la sua speranza in Lui e aspira a uniformarsi a Lui povero e trova la soddisfazione non in beni passeggeri ed effimeri, ma nella ricchezza dei doni che Dio elargisce in abbondanza a chi si affida a Lui ed è colmo della sua ricchezza. Afferma Leone che: «È in questa condizione che si può riassumere in maniera chiara la povertà di Gesù. Egli si presenta al mondo non solo come Messia povero, ma anche come Messia dei poveri e per i poveri»[6]. L’esortazione trova nel secondo capitolo, soprattutto nei numeri 18- 24, il suo orientamento e fondamento Cristologico, che svela l’amore del Padre, e da questo amore che scaturisce l’amore preferenziale verso i poveri.
L’ abbassamento di Cristo, giunge sino all’esito paradossale di chi si lascia crocifiggere per amore. Sulla croce Gesù ha sconfitto per sempre l’amore per sé e ha innalzato l’agape, l’amore per gli altri senza limiti. Solo in Gesù povero comprendiamo la nostra povertà e la scegliamo e questa sola ci può aprire e accogliere i poveri; sono la povertà scelta per amore e la povertà subita – dai prossimi in quanto poveri – che si incontrano nell’agape sino alla condivisione e diviene profezia che apre alla possibilità di colmare lo ‟squilibrio ˮ e diviene testimonianza dell’amore di Dio. Tema che tratteremo nei prossimi articoli.
[1] Cf. Leone XIV, Dilexi te, n 102 e 104.
[2] Ib., n 79
[3] Ib., n 104.
[4] Gisana R., In ascolto dello Spirito. Note pastorali per camminare insieme, Piazza Armerina, 2022, p. 22
[5] Ib., p. 153.
[6] Leone XIV, Dilexi te, n 19.
