14 Novembre 2025

DILEXI TE: La scelta dei poveri rinnova la Chiesa

di don Giacinto Magro

Introduzione Nel precedente articolo ho presentato l’esortazione ‟Dilexi teˮ e ho cercato di cogliere l’enfasi e tutta la radice cristologica della stessa, come chiave interpretativa, ne ho delineato i tratti dell’Amore di Dio che nel Figlio, assumendo la dinamica dello svuotamento, si fece povero della sua divinità e assumendo la condizione di povero/servo, si è fatto uomo condividendo tutto dell’umano. Egli ci ha rivelato l’amore divino divenendo esistenzialmente una povertà radicale (Cf. Fil 2,7). La proposta di Papa Leone, in prima istanza, infatti invita all’uniformazione a Cristo, povero. Aprendoci a Lui si scopre  che tutti siamo poveri e scoprendo la nostra povertà, come immensa verità di noi stessi, questa ci fa capaci d’accogliere il vangelo sino ad attivare in noi l’ospitalità, dentro di noi, di ogni fratello  quale segno inclusivo d’amore dei  poveri. L’incarnazione e quindi l’abbassamento di Cristo,  giunge sino all’esito paradossale di chi, come afferma Paolo, è arricchito della Grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi vi arricchiste con la sua povertà» (2 Cor 8,9). Il discepolo si lascia crocifiggere per amore ed è disposto a rivivere, per il dono dello Spirito, Gesù stesso, il quale si fece povero. Sulla croce Gesù ha sconfitto per sempre l’amore per sé e ha innalzato l’agape, l’amore per gli altri senza limiti. Solo in Gesù povero potremmo comprendere la nostra povertà e la potremmo scegliere e sola questa ci può aprire ad accogliere i poveri. Come affermavo precedentemente: la povertà scelta per amore e la povertà subita – dai prossimi in quanto poveri – li fa incontrare nell’agape manifestataci dal Cristo. Sì, è Cristo che motiva tutta l’azione del credente e della Chiesa e si fa prossimo di ogni uomo e ciascuno può rileggere la sua vicenda umana e storica nel libro della passione di Cristo e sentirsi amato, lì Egli ci ha donato tutto nella totale povertà di sé[1]. Ecco allora che si coglie in pienezza che Cristo il Povero e crocifisso sulla croce raggiunge tutti. È i poveri in Lui si identificano e questi nella loro sofferenza, spesso dicono ‟anche a me hanno sputato addosso, anche io sono caduto, anche io sono stato umiliato”; per questo guardando Gesù sulla croce, i poveri sentono ‟Ti ho amato”. Cristo è il buon samaritano, lo straniero che si fa prossimo dell’umanità; Egli è il Sacramento del Padre e ama e continua ad amare attraverso la Chiesa. Ella compie l’azione di Cristo, e agisce divenendo prolungamento di Lui.

La Chiesa, corpo di Cristo, si fa povera e si fa prossimità di ogni povero La Chiesa, infatti è come il sacramento, che agisce in nome di Cristo che è il Sacramento manifestativo dell’amore del Padre, mentre il povero è un sacramentale. La Chiesa, come suo Corpo mistico, continua l’azione di Cristo nel mondo e i poveri diventano un segno tangibile della presenza di Cristo, che si identifica con i più bisognosi. Essi appunto non sono un sacramento, ma un ‟sacramentaleˮ, cioè un segno che rimanda a Cristo. La Chiesa agisce compiendo i gesti di Cristo, del resto è Lui, il Crocifisso-Risorto, presente in essa che l’amina, col la forza del suo Spirito, mentre i poveri, per la loro condizione di fragilità e vulnerabilità, sono persone che richiamano Cristo stesso e lo rendono presente. I poveri li avrete sempre con voi (Cf. Mc 14,7) e ‟Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me ˮ (Cf. Mt 25,40). Questi due detti di Gesù sono legati e sono la prova che quanti non riconoscono i poveri tradiscono l’insegnamento di Gesù e non possono essere suoi discepoli[2]. La relazione tra chi si vuole uniformare a Cristo e chi chiede di essere sostenuto, amato, può avvenire nell’incontro agapico sino alla condivisione e ad essere profezia che apre alla possibilità di colmare lo ‟squilibrioˮ e diviene testimonianza dell’amore di Dio. Ecco perché il Papa afferma ‟che è nell’incontro stesso con i più poveri che conosciamo il volto del vero Dio”. Pertanto, la Chiesa nel suo insieme, come comunità, non può essere assistenzialista e tanto meno una aggregazione che promuove la beneficenza. La questione è più alta perché si tratta della Rivelazione stessa, perché non si può separare la fede dall’amore per i poveri. Ancora afferma il santo Padre: «Il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale d’incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli, ( il Signore), ha ancora qualcosa da dirci». La questione è proprio questa. Papa Francesco parlava di una misteriosa saggezza dei più poveri. Il Vangelo dice: «Hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25-27). Difficile dire cosa sia nascosto e cosa sia rivelato agli uni e agli altri. Penso che sia soprattutto una questione relazionale: il criterio della verità non va ricercato nella conformità a un dogma, ma nel rapporto con dei volti, e in particolare con quelli dei più poveri. Cristo non si conosce perché si acquisisce una conoscenza dottrinale e nemmeno perché si compiono atti moralistici, ma Cristo si conosce perché si incontra vivo nella carne dei fratelli e di Lui si fa esperienza viva, personale e comunitaria. È questo che il documento indica, questo effetto di rivelazione che ci dice che la pratica della carità non è semplicemente una conseguenza della nostra fede; è nell’incontro stesso con i più poveri che conosciamo il volto del vero Dio. Questo criterio della verità, che è l’incontro con i più poveri, si ritrova davvero in tutta l’Esortazione apostolica. Ecco perché la scelta di Cristo e il desiderio di uniformarsi a Lui. Ogni battezzato è chiamato alla prossimità e a scegliere i poveri. Colpisce come, con parole semplici, Papa Prevost, inviti ‟tutti i cristiani a non limitarsi a visitare i poveri di tanto in tanto, ma a vivere con loro e come loro”.

La storia ecclesiale come storia d’amore per i poveri La scelta dei poveri si comprende per Papa Leone, per quando fin qui ho detto, non è semplice filantropia ma scelta evangelica e teologale. Queta ha la robusta radice evangelica e la ragione teologica e ciò «si comprende bene, perché si può anche teologicamente parlare di un’opzione preferenziale da parte di Dio per i poveri, un’espressione nata nel contesto del continente latino-americano e in particolare nell’Assemblea di Puebla, ma che è stata ben integrata nel magistero della Chiesa successivamente[3].” Questa ‟preferenza” non indica mai un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi, che in Dio sarebbero impossibili; essa intende sottolineare l’agire di Dio che si muove a compassione verso i poveri e la debolezza dell’umanità intera e che, volendo inaugurare un  Regno di giustizia, di fraternità e di solidarietà, ha particolarmente a cuore coloro che sono discriminati e oppressi, chiedendo anche a noi, alla sua Chiesa, una decisa e radicale scelta di campo a favore dei più deboli»[4]. La preferenza dei poveri, del resto, ha segnato la storia della Chiesa. Egli il Papa, nel corso testo fa emergere figure eminenti nella carità verso i poveri (da alcuni Padri della Chiesa a San Francesco a San Giuseppe Calasanzio a San Giovanni Battista Scalabrini a Santa Teresa di Calcutta) ed anche alcune tra le opere di carità più note (la cura dei malati, la visita ai carcerati, l’accompagnamento dei migranti. . .). Queste sono pagine che emozionano per la forza dell’amore per i poveri che ha percorso la storia della Chiesa in tutti i continenti, sino ai nostri giorni. Tali figure (e le relative opere di carità ) non sono slegate tra loro anzi tratteggiano il ‟filo d’oro” che tesse la vicenda ecclesiale  e ci mostra come ogni volta che i cristiani hanno limitato il loro legame con il Vangelo hanno tralasciato i poveri. Al contrario, quando hanno voluto ri-forrnare la Chiesa perché  essa fosse più somigliante a Cristo e volesse ricopiarlo sino ad assumere la ‟forma” del Vangelo hanno sempre ri-iniziato a scegliere i poveri.  Emerge, dalle pagine del testo di Leone XIV, che l’amore di Dio per i poveri si fa continuo avvenimento nel tempo. Infatti, la parte centrale della Esortazione descrive la storia della Chiesa come storia dell’amore peri poveri. Nell’esortazione è descritto un lungo rapporto della Chiesa con i poveri; Essa ha avuto un legame continuo con i poveri che emerge sia nella tradizione, nelle Scritture, sia nei Padri della Chiesa e nei grandi santi. Del resto, anche Dio sceglie i poveri, e ne fa un pressante invito per riscoprire il volto di Gesù che è tratteggiato dalle Beatitudini. Del resto, i più poveri sono il luogo della presenza di Gesù, essi sono i maestri nelle Beatitudini[5]. Siamo invitati a lasciarci spostare, a decentrarci da noi per vedere il mondo attraverso i loro occhi. Se non si è in questo luogo di ancoraggio, di risonanza, questo luogo vitale, esistenziale, non si può comprendere la Rivelazione. C’è un detto che dice che i poveri sono Maestri del Vangelo. Nell’esperienza pastorale spesso mi sono imbattuto con persone che vivono nella precarietà, e la povertà esistenziale – indigenti, famiglie con disagi varie provocate per la povertà, ragazzi con esperienze di tossicodipendenza, ecc. – sempre mi colpisce il fatto che, – dopo un percorso di consapevolezza – quando questi guardano Gesù sulla Croce, s’identificano completamente con Lui e comprendono la croce non a partire da riflessione intellettuale, ma dalla propria esperienza e dalla accoglienza e solidarietà che ricevono. Questo effetto di attualizzazione del mistero pasquale nella vita dei più poveri è assolutamente affascinante, è il cuore di quella misteriosa saggezza che è la vita dei più poveri. In tal senso credo che la speranza – chiave prospettica del giubileo che stiamo vivendo -, sia veramente, con questa esortazione, di nuovo, la parola centrale della vita della Chiesa nel suo impegno missionario. Evidentemente si comprende che dai  poveri s’impara a riscoprire il vangelo e ad essere uomini di speranza. I più poveri sono coloro che non hanno persino prospettive e vivono ogni momento come l’unico perché non hanno alternative e si lasciano condurre ponendo in altri la speranza di essere risollevati. Il che significa che non hanno altra scelta che confidare in Dio che fa loro sentire interiormente che, a un dato momento, agirà. Ed è lì che questo Giubileo della Speranza vissuto a partire dai più poveri può essere realmente una speranza per tutti. Quando si parla di ‟opzione preferenziale per i poveri”, non bisogna mai dimenticare che Dio dona la salvezza a tutti ma – e dall’Esortazione si deduce – anzitutto ai poveri. Vale a dire che è anzitutto attraverso di loro che la salvezza giunge a noi. Il che ci obbliga a riconsiderare tutte le nostre categorie, i nostri concetti teologici, a partire dal rapporto con i più poveri.

Conclusione La scelta dei poveri forse scuote e una Chiesa povera per i poveri ancora di più. E tempo di scrollarci tante sovrastrutture e rendere vivo ed efficace l’invito rivolto dal Papa a tutti i cristiani a non limitarsi a fare qualcosa per i poveri di tanto in tanto, ma a vivere con loro e come loro. C’è una radicalità in questo invito che trovo al tempo stesso magnifico e spaventoso, ma rivoluzionario. Se si costruisce a partire dal forte, da coloro che si affacciano alle nostre celebrazioni per consuetudine e di tanto in tanto per tradizione mai si avranno comunità vive che esprimono la Chiesa quale Corpo di Cristo. Mentre scegliendo i poveri, gli ultimi si avrà una logica di inclusione progressiva e si avranno comunità vive[6]. Inoltre, non bisogna andare a cercare i più poveri ai margini, nelle periferie, per compiere gesti anche di carità, che rimangono gesti perbenisti e per sé stessi. In realtà, ce ne saranno sempre altri ancora più poveri, più lontani, che non si riuscirà mai a raggiungere. Se invece si cambierà logica sino a scegliere i poveri scegliendo intanto di vivere la dinamica dell’ospitalità gesuana per  realizzare e ‟costruire le comunità cristiane a partire da chi è più lontano”, dai poveri, allora si potrà davvero includere tutti. È necessario cambiare paradigma. Dio cambia il mondo attraverso il mondo dei piccoli e dei poveri. Questa deve diventare una profonda convinzione del nostro cuore, della Chiesa e quando incontriamo persone più vulnerabili dobbiamo sapere che insieme con loro possiamo fare grandi cose. L’altro, il povero con la sua fragilità è un appello che Dio rivolge per la conversione della Chiesa, per la conversione di ogni battezzato. È tempo di cambiare rotta e necessario esporsi: se il rischio è quello ‟di sembrare degli ‛stupidi’”[7] occorre volere ascoltare la lo Spirito e decidersi cambiare e correndo il rischio; se il sogno è quello di ‟una Chiesa che non mette limiti all’amore, che non conosce nemici da combattere, ma solo uomini e donne da amare”[8]  e necessario decidersi e volerlo realizzare. Del resto, come ricorda Papa Leone, questa ‟è la Chiesa di cui oggi il mondo ha bisogno” una Chiesa più famiglia inclusiva di tutti che sappia diffondere l’amore e partire dall’amore di Cristo più che dal ritualismo e dalla religiosità. Solo così la Chiesa potrà inaugurare una nuova socialità inclusiva, come segno della stessa che annunzia e salva il mondo e rinnova dal didentro la storia. Concludendo, a me sembra che la vita cristiana vivendo la spiritualità pasquale ed eucaristica, giocando tutta sé stessa nell’amore suggerisca, al nostro agire, queste profonde convinzioni; facendo così la differenza rispetto alla filantropia, al fare del bene perché poi così stiamo bene. È qualcosa di molto più profondo, uno sperimentare nell’avvicinamento ai poveri la ricchezza del mistero di Dio che abita in noi, nel mondo e nell’altro.

[1] La logica di Dio-amore è spossessarsi ed essere amore già intra-trinitariamente. Il teologo Balthasar, a riguardo, si affida alla prospettiva del teologo russo Bulgakov il quale afferma che al cuore del mistero trinitario si trova il processo di kenosi, – o di povertà in Dio stesso – in cui il Padre si disappropria radicalmente della sua divinità e la transappropria al Figlio: egli non la divide con il Figlio, ma gli la partecipa donando tutto il suo al Figlio. In questo senso il Padre non va pensato, al modo ariano, come esistente prima di questa donazione; anzi, Egli stesso «è questo movimento di espropriazioni per certi versi e di donazione, senza trattenersi come per calcolo qualcosa». Balthasar riconosce in questa kenosi primordiale e originaria la possibilità della povertà che dà spazio  (Ur-Kenose) dell’esistenza di ogni cosa. Per il concetto di kenosi in Bulgakov Cf., L. Žak, «Kenosi di Cristo e mistero della Chiesa nella sofiologia di Bulgakov (I parte)», La sapienza della croce 20/3 (2005) 117-136; Cf. P. Martinelli, La morte di Cristo, 345-361.
[2] Cf., Leone XIV, Dilexi te, n 5.
[3] Cf. S. Giovanni Paolo II, Catechesi (22 ottobre 1999): L’Osservatore Romano, 28 ottobre 1999, 4.
[4] Cf., Leone XIV, Dilexi te, n. 16.
[5] Cf., Ib. , n. 21 – 22.
[6] Cf., Ib., n 32 – 34.
[7] Cf., Ib, n 97.
[8] Cf., Ib. n. 120.

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