
Per quell’epoca doveva essere il bacino idroelettrico più grande del mondo. Una diga che si conformava alle fattezze della montagna e toccava il paese di Erto e Casso chiudendosi, dal lato opposto, con un muro di cemento armato a forma di scudo, nella strettoia del monte Toc, appena sopra il paese di Longarone. I rilievi geologici furono forzati nella idoneità, malgrado la natura friabile della roccia; la montagna, alta 1921 metri, situata al confine del Friuli-Venezia Giulia e Veneto, era chiamata dagli abitanti del luogo “Toc” che significa in friulano qualcosa di “marcio” o “guasto ”. Le caratteristiche di friabilità vennero trascurate anche per la spinta ambiziosa nel voler costruire una mega struttura che avrebbe portato benefici e lustro agli ideatori, ingegneri, progettisti nonché agli stessi finanziatori quali la SADE (società Adriatica di Elettricità) e la subentrante ENEL nella gestione della diga e delle infrastrutture. Anche lo Stato Italiano finanziò l’opera perché rientrava in un piano di sviluppo idroelettrico nazionale.
Durante la costruzione della diga si formarono delle profonde ed ampie crepe ai fianchi della montagna, ma il fenomeno fu sottovalutato per dare credito all’operato degli ingegneri e per infondere sicurezza a chi aveva già concesso il finanziamento milionario.
Durante la costruzione, una voce “fuori dal coro” fu quella della giornalista Tina Merlin che, sul quotidiano l’Unità, pubblicava articoli e dossier sulla infattibilità e pericolosità della diga; successivamente, nel 1983, Tina Merlin scrisse il libro dal titolo: “Sulla pelle viva. Come si costruisce una Catastrofe”. Ancora oggi, è possibile vedere la frana a forma di M (vedi immagine foto) che generò il disastro.
In sostanza l’acqua dell’invaso aveva lubrificato i piedi del monte Toc e infiltrandosi aveva creato un substrato scivoloso sul quale franò parte della montagna. Dalla raccolta delle testimonianze conservate presso il museo di Erto, che vi consiglio di visitare, è possibile ricostruire il momento della tragedia: “Era il 9 ottobre del 1963, la vita scorreva come ogni altro giorno, quella sera, molti erano andati a letto, altri erano ancora per le vie del paese e molti erano nell’ampia sala del bar per vedere alla Tv la partita amichevole Italia – Russia.
Minuti prima della tragedia era andata via, per diverse volte, la luce. A guardia della diga vi era un operaio di torretta, posizionato nella parte alta della struttura in cemento armato. Questi aveva notato, quella sera, un insolito silenzio, quasi inquietante, come se la natura si fosse fermata e, guardando con il binocolo e un grande faro, notò che gli alberi iniziarono a “camminare”, scivolando con tutte le radici, verso il basso. Quella massa di montagna cadde nell’acqua della diga causando un’onda con conseguenze catastrofiche; ciò possiamo meglio comprenderlo, immaginandoci l’onda generata da una grossa pietra che cade, con potenza, dentro una bacinella colma di liquido.
In quel 9 ottobre, alle ore 22. 39, delle insolite e forti folate di vento accompagnavano il gorgoglio di una massa d’acqua che, assumendo velocità attraverso la lunga e stretta gola della montagna, precedeva il pauroso boato dell’onda alta 350 metri (cinquanta milioni di metri cubi d’acqua) che si abbatteva sui centri abitati travolgendo ogni ostacolo. Case, chiese, fabbriche venivano rase al suolo mentre uomini, animali, auto, moto sembravano volare prima di essere inghiottite da quella furia d’acqua.
Una tragedia, che poteva essere evitata, e che fu causa di 1917 morti, dei quali 487 bambini, mentre furono 400 i corpi mai trovati. Il disastro lasciò uno scenario apocalittico con la formazione di un fiume di fango e detriti di ogni genere, la distruzione di 895 abitazioni e 205 unità produttive, nonché, 2 chilometri della ferrovia Belluno-Calalzo e 4 chilometri della statale 51 letteralmente spazzati via.
I comuni maggiormente devastati furono Longarone, Codissago e Castellavazzo. L’onda raggiunse anche diverse frazioni e borghi nonché la parte bassa di Erto e Casso.