
Il passaggio finale della prima lettera di san Pietro, prima del saluto, rinnova quella potente esortazione rivolta a coloro che hanno la responsabilità di servire la comunità. «[…] pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo […] volentieri, come piace a Dio, […] con animo generoso, non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (5,2-3). La ridondanza di alcuni incisi all’interno di questi due versetti può fare ombra alla bellezza invece di questa profonda sensibilità con cui si attraversa il ministero della “sorveglianza” «volentieri, come piace a Dio, con animo generoso». Dettagli di una sensibilità molto profonda, appunto, ovvero capace di scavare in verticale, cercando il nocciolo della passione per l’altro come punto d’interesse o, per meglio dire, “centro di gravità permanente”. L’altro, la sua persona e la sua dignità, assieme alla passione per ciò che gli riguarda sono l’anima dell’anima della guida, del pastore, abilitato alla sorveglianza: termine che dall’originale greco ha consegnato la parola “vescovo” al vocabolario ecclesiastico. Quanta importanza abbia questo passo non solo per il linguaggio fertile e ricco, ma soprattutto per la grammatica della guida, è inimmaginabile ad una prima lettura veloce, snella e asciutta! Occorre soffermarsi e, ad un certo punto, anche leggere le ultime righe senza la malizia che distrae e porta fuori strada. Chi sono i «padroni delle persone» (letteralmente “governanti del luogo”, tipo “padrone del pastificio” si direbbe in siciliano) a cui si allude in questo spazio così intenso? Beh, sicuramente non sono “modelli” di riferimento per la gente; cioè, per quanto possano darsi arie e vantarsi del proprio titolo, non saranno mai visti di buon grado. La prima lettera di san Pietro esalta quella semplice e onesta capacità che la gente possiede nell’orientarsi di fronte a chi è preposto alla custodia e alla guida e su questa attitudine il testo scommette, come su un volano magnetico, la continuità tra il vangelo e la realtà di comunione tra i fratelli. Il potere inteso come opportunità per raggiungere e soddisfare le proprie esigenze; il governo gestito per dividere e, piuttosto che per unire e creare legami, ostacolare l’azione dello Spirito, proprio nella direzione di quanto è scritto in Fratelli tutti, se non vi sono mezzi di persuasione efficaci bisogna: «cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano» (n. 241). Nonostante il testo di Papa Francesco non abbia voluto riferirsi a qualche forma di potere in particolare, il contesto del brano riprende il tema del perdono all’interno di una comunità e, quindi, della centralità che assume sempre di più la presenza dell’altro, come persona: con la sua dignità tutta, compresa tra il servizio alla comunità «volentieri, come piace a Dio, con animo generoso» e l’obbedienza agli anziani (1Pietro 5,5).
È l’amore per l’altro, non per il potere che egli possa gestire, che si invoca in tutti una passione “critica” per la comunione ed è questo atteggiamento che rende «saldi nella fede», di fronte alle numerose trappole del «leone ruggente», spesso camuffato da agnello innocente e altre volte da innocuo vecchietto (non anziano!) pronto a risolvere le questioni preoccupanti magari indirettamente dallo stesso alimentate (5,8). La preoccupazione di Dio nei confronti della comunità è incline all’assistenza continuata della comunione attraverso uomini e donne umili nei suoi confronti (5,6), anche se sofferenti a causa delle persecuzioni. Sono essi la comunità ristabilita, confermata, rafforzata e con «solide fondamenta» a cui Egli intende concedere di andare avanti (5,10).