
La vita cristiana è fatta di un continuo accostamento alla storia, quella che coinvolge tutti: uomini e donne, credenti e non credenti, politici e gente comune, cristiani e non. Tale contesto comporta un atteggiamento dedicato, un vero e proprio avvicinamento appunto, con il quale entrare, conoscere e appartenere al tempo e allo spazio contemporaneo. Una sensibilità ereditata dal profeta che raccomanda: «O voi tutti abitanti del mondo, che dimorate sulla terra,appena si alzerà un segnale sui monti, guardatelo! Appena squillerà la tromba, ascoltatela!» (Isaia 18,3); una consegna fatta da Cristo quando richiama all’attenzione, alla preoccupazione positiva e alla valutazione di quanto accade e racconta il presente, così come il futuro della storia. «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Arriva la pioggia”, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade. Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto?» (Luca 12,54-56).
L’ipocrisia è pura distrazione, mancanza di visione e prospettiva: uno stato di vita alternativo alla vita stessa, isolante, discriminatorio e anaffettivo. Nel linguaggio di Gesù, la condizione dell’ipocrita è carica di uno scivolamento all’indietro nei confronti del tempo e dello spazio, che sembra parlare di differenze epocali a volte tra la contemporaneità: i suoi disastri e le sue opportunità, e tutto il resto. Una vita “distratta” è una vita sciupata ed occorre ritornare al bene per garantire alla vita stessa di rimanere in sé stessa. «Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza» (Isaia 30,15). Alla luce di ciò, il motivo principale per cui l’insegnamento evangelico ha preso piede al tempo di Gesù e, successivamente, durante la sua diffusione nelle comunità cristiane, è stata appunto l’esigenza della conversione, dell’inversione di rotta da una vita distratta ad una vita attenta, sempre più consapevole e sensibile. L’espressione forte e consistente con cui l’evangelista Marco inizia il suo racconto sulla vita di Gesù è quanto dire: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (1,14); ma lo è anche ciò che riporta Luca quanto scrive: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (13,2-5).
Nell’immediatezza, discorsi come questi inducono al sospetto, al panico e alla paura. Invece, soffermandosi e riflettendo con calma, l’attenzione ai segni della storia accompagna la crescita consapevole dell’uomo, la sua capacità di orientamento e di scelta che fanno di lui uno in grado di stare con gli altri, di tessere relazioni, di cucire e ricucire, senza cercare a tutti i costi lo strappo, ma senza nemmeno averne soggezione. «» Per il cristiano, essa è una facoltà da coltivare e far maturare attraverso l’ascolto continuo, incessante e reiterato della Parola di Dio, poiché nei racconti della salvezza l’attenzione, il discernimento e la capacità di giudizio sono visti in continuo ed ininterrotto riferimento all’altro, al fratello e alla sorella, alla comunione e alla comunità. «Imparate a fare il bene, cercate la giustizia. Soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Isaia 1,17). Accostare la storia, conoscerne i ripieghi o gli sviluppi è una possibilità che dipende dall’accostare gli altri, avvicinarli e farli rimanere, facendoli sentire a casa. «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Matteo 25,35-36).
L’attenzione all’altro è il primo motivo per cui l’appello alla conversione ha un senso e consapevolezza, prossimità e condivisione scandiscono il presente della vita cristiana, secondo tutte quante le dimensioni della realtà: altezza, larghezza e profondità. La radice ultima della sua identità è sempre quella meno evidente, appariscente – se si vuole – o social (si direbbe oggi): l’ascolto. Il dna è quello: dal popolo d’Israele ai nostri giorni; la natura non fa salti e il carattere indelebile inscritto nella vocazione alla comunione prima o poi fa frutto. O almeno dovrebbe.
«Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina
e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Isaia 55,10-11).