
Il tempo giubilare, che è iniziato nel segno delle porte aperte in differenti basiliche romane, basiliche cattedrali e, di conseguenza, anche in chiese “giubilari” di ogni città, è scandito dal ritmo di un conflitto mondiale che lentamente inasprisce e schiaccia sempre di più i poli terrestri. Come dentro ad una morsa di odio meccanico, scontato e senza freni, l’uomo prova ad appiattire il proprio orizzonte vitale infliggendo dolore e morte con una crudeltà che mai si sarebbe più voluta vedere dopo le due grandi guerre (1918-1920 e 1940-1945). Il pianeta soffre. La gente sta male, cerca motivi per ritornare a sperare e vede la chiesa come un’istituzione che prova a fare del suo meglio ma, purtroppo, non ci riesce. Gli appelli per la pace rivolti da Papa Francesco ai potenti si risolvono, di fatto, con una richiesta di preghiera fatta alle comunità e a ciascuno degli uomini e delle donne di buon senso, lasciando tutti con il vuoto di un appiattimento esistenziale. Si fa fatica a pensare la presenza di Dio mentre ci arrivano le immagini dei bambini sepolti subito dopo essere nati, perché morti di freddo nei campi profughi di Gaza; e questo proprio perché l’esistenza vissuta da tutti finora si è espressa in un ciclo vitale che, dalla nascita, ha coinvolto relazioni esterne alla famiglia, alla cerchia degli amici fino ad arrivare all’intero globo terrestre. Adesso, invece, l’unica relazione che si prospetta davanti all’umanità del 2025 è quella tra il buio del grembo materno e l’oscurità di un piccolo buco scavato a terra dopo nemmeno qualche ora di vita. Un passaggio veloce tra due orizzonti bui e senza luce, tra due porte simili che aprono però due esperienze contrapposte: la vita e la morte. Una fine prima dell’inizio. Una regressione innaturale, senza spiegazione.
In tutto ciò, l’unica voce che risuona nel cuore dell’umanità è quella di una domanda: «Fino a quando?», che è poi quella rivolta a Dio per sfogare la propria desolazione: «Fino a quando, Signore, continuerai a dimenticarmi? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto?Fino a quando nell’anima mia addenserò pensieri, tristezza nel mio cuore tutto il giorno?» (Salmo 13,2-3). Non c’è retorica in queste parole, bensì tanta amarezza: un mistero, un vuoto e tanto buio ed oscurità. E sembra come un vivere, giorno dopo giorno, l’atmosfera di un venerdì santo che si ripete come in quei film in cui l’attore protagonista, addormentandosi a sera, si sveglia nello stesso giorno che ha già vissuto, con le stesse situazioni, le stesse circostante e gli stessi dialoghi; giusto per indovinare cosa debba migliorare per uscire dal loop, dalla ripetizione di quelle relazioni malate in cui si trova quasi per incantesimo. Un venerdì santo, senza nè sabato nè, tantomeno, domenica di Pasqua. Una coazione a ripetere inni e preghiere di dolore per la morte del giusto sofferente intonate dal profeta nel quarto canto del Servo del Signore, che profetizza la morte stessa di Gesù Cristo (Isaia 52,13-53,12). Eppure la tradizione spirituale della chiesa ha affondato le proprie radici nell’esperienza degli uomini giusti e saggi che, ancor prima della nascita di Gesù, hanno attraversato il buio della vita umana, con le sue ingiustizie e stupidità atroci, lasciando precise istruzioni in espressioni e riletture simili a questa: «Chi è l’uomo che desidera la vitae ama i giorni in cui vedere il bene? Custodisci la lingua dal male, le labbra da parole di menzogna. Sta’ lontano dal male e fa’ il bene, cerca e persegui la pace» (Salmo 34,13-15). Insegnamenti e codici di comportamento in grado di attivare una difesa mistica e spirituale attraverso indicazioni pratiche, semplici, ma impegnative e audaci. «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Isaia 53,7). Slanci e accelerazioni nel quotidiano tali da scatenare un movimento interiore che contrasta la ripetizione, il loop dell’esperienza danneggiata dal male fino a bucarla per farvi passare la luce.
Il male ha il suo punto di forza maggiore nell’opposizione dell’uomo con quella però non sarà mai in grado di sottometterlo; di contra, il fare il bene e cercare la pace con parole e fatti di riconciliazione è uno scacco senza rimedio al male. È nello spaccato delle relazioni più vicine e prossime che la comunità cristiana può scorgere la luce del cambiamento interno, definito sinodalità. È nel rinnovo del punto di vista tradizionale, attraverso una collocazione più circolare e meno piramidale di ciascun fratello e sorella della comunità, che la speranza di portarsi nella missione di Cristo oggi diventa un impegno a misura d’uomo, concreta e fattibile. Come a dire che se non s’inizia a costruire la pace nelle relazioni del proprio piccolo quotidiano, non ha senso invocarla da Dio per il resto del mondo. La prima pace che la comunità cristiana può ritrovare è quella che la riguarda al proprio interno ed è in quella direzione che deve concentrare le proprie energie migliori: è lì che la riconciliazione praticata in occasione di un tempo molto forte come quello del Giubileo può e deve avere maggiormente senso. Nei rapporti tra quanti vivono la stessa comunità parrocchiale; nel diaframma d’incarichi tra i membri di uno stesso ufficio pastorale e nell’alveo dei contatti tra chi progetta nei consigli pastorali e ciascuno di quanti compongono la comunità, anche se non sempre presenti per motivi di famiglia o di salute.
È stupendo quel passaggio che in uno dei prefazi della messa il sacerdote a nome della comunità proclama ricordando a Dio la missione che ha affidato al credente: «Tu lo chiami a cooperare con il lavoro quotidiano al progetto della creazione e gli doni il tuo Spirito, perché in Cristo, uomo nuovo, diventi artefice di giustizia e di pace» (prefazio Comune IX): una dichiarazione che intende inaugurare una stagione nuova per l’antica alleanza di sempre tra l’uomo e il suo Dio e Padre, sebbene questa sia stata la più innovativa delle stagioni intraviste proprio da Dio attraverso i suoi profeti. Una prima pace è possibile; dunque è veramente necessario che si lavori per renderla quanto più visibile e concreta nelle comunità. Diversamente, si rischia di fallire in tronco perdendo credibilità e autorevolezza nei confronti di entrambi gli interlocutori della cristianità odierna: Dio e l’uomo.