Introduzione
Quando si parla di Giubileo è immediato il collegamento alla Porta Santa, che ne rappresenta uno dei simboli centrali, infatti, attraversando quel varco i pellegrini vogliono compiere un gesto simbolico di passaggio, dal peccato alla grazia di Dio, dall’uomo vecchio – direbbe San Paolo – all’uomo nuovo. Ecco infatti cosa afferma: ‟Piacque a Dio di predestinare gli uomini ad essere conformi all’immagine del figlio suo, affinché egli fosse il primogenito di una moltitudine di fratelli[1]. Come affermavamo nel precedente articolo Gesù ci libera dal peccato, o meglio ancora, dall’io facendosi nostro fratello. Il senso fondamentale del discorso è che in Gesù, in particolare nella sua Pasqua, Dio rivela definitivamente la sua parentela con noi: per questo la morte in croce è redenzione. L’opera della salvezza realizzata da Cristo può essere qualificata come redentrice, non perché ci sia qualcuno in cui Dio sia tenuto a pagare un prezzo fissato per la nostra liberazione, ma perché il suo essere nostro «parente in Gesù fattosi nostro fratello», il suo diventare uno di noi, nel Figlio suo, implica una condivisione piena della nostra situazione di schiavitù, per cambiarla dall’interno. Detto ciò si coglie con più chiarezza che il Giubileo, che la Chiesa celebra è un tempo di Grazia per aiutare tutti e ciascuno a vivere nella propria carne la vera relazione con Lui e passare da una “non relazione “ad una “relazione” piena. I discepoli di Gesù sono quindi chiamati ad attraversare, simbolicamente, la Porta che è Gesù, dice infatti Giovanni: «Io sono la Porta delle pecore», interiormente, per il valore che la Porta Santa esprime, attraversano un ponte, uno spazio di mediazione che poi è Cristo che li rende creature nuove. Il Giubileo allora è un tempo di Grazia speciale perché si esca dall’essere assonnati e si assuma l’atteggiamento del vegliardo; sì, siamo chiamati ad essere desti su noi stessi, sui fratelli e sulla storia.
Cenni storici e il simbolismo antropologico cristiano
Detto ciò la Porta è simbolo efficace di Grazia, un sacramentale e non un sacramento che ci pone nelle condizioni di fare questa esperienza piena di fede. Nel tempo il simbolismo della Porta ha accompagnato il cammino della Chiesa e dei Giubilei. La prima Porta Santa della storia è quella che si trova nella Basilica di Santa Maria di Collemaggio, aperta in occasione del primo Giubileo della storia, indetto da Papa Celestino V nel 1294 e noto con il nome di ‟Bolla del perdono”, perché il Pontefice, appena eletto, volle concedere un’indulgenza plenaria a chiunque, pentito e confessato, avesse attraversato quel varco tra il 28 ed il 29 agosto[2]. Nel 1300 Papa Bonifacio VIII indice il primo Giubileo, ma la prima Porta Santa entrerà a far parte del simbolismo cristiano solo nel 1500, in occasione del Giubileo indetto da Papa Alessandro VI che ne ordinò l’apertura nella Basilica di San Pietro. In quell’occasione fu il Pontefice stesso ad abbattere il muro che sigillava la porta, rimuovendo così simbolicamente gli ostacoli che dividono l’uomo da Dio e fra di loro. A tal proposito San Paolo nella lettera agli Efèsini afferma: ‟In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete stati avvicinati per mezzo del sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due popoli uno e ha demolito il muro di separazione, avendo abolito nella sua carne l’inimicizia[3]. Mentre nel 1540 Papa Paolo III fissò le caratteristiche del rito dell’apertura della Porta Santa e incluse ufficialmente anche le Porte Sante nelle Basiliche papali di Roma, cioè San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo fuori le mura. Papa Pio XII nel 1950, cioè nel primo Giubileo dopo la Seconda guerra mondiale, evidenziò l’importanza della Porta Santa quale rappresentazione di speranza e riconciliazione di un mondo ferito[4]. Oggi con Papa Francesco la simbologia delle Porte Sante nel mondo si è allargata tanto come nel Giubileo straordinario della Misericordia, mentre nell’attuale Giubileo è stata aperta la Porta del Carcere di Rebibbia una simbologia che vuole guardare i lontani e gli esclusi. Il riferimento alla Porta, se guardiamo i testi biblici, sono diversi anche se tutti fanno riferimento a Gesù perché è Lui la Porta.
La ricchezza parabolica della Porta nei Vangeli
Pertanto adesso fermeremo la nostra attenzione a tre riferimenti biblici precisi. Giovanni 10,7 «In verità, in verità io vi dico: «io sono la porta delle pecore»; Luca 13,24 «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno»; Matteo 25, 10-12 «Ora, mentre quelle andavano per comprare l’olio, arrivò lo Sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: Signore, Signore, aprici! Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco». L’immagine della Porta, così come emerge nel testo giovanneo del capitolo 10,ha una forte valenza simbolica e antropologica e in questo tempo giubilare maggiore forza. La mobilità della Porta rende il limite del riparo costruito dall’uomo, sia esso casa o qualunque altro edificio, un limite che non imprigiona ma che è a servizio della libertà, sia quando protegge l’intimità della persona all’interno, sia quando la aprealle relazioni all’esterno. Immagine di chiusura e apertura, di intimità e di relazione, di protezione e di esposizione (di inspirazione e di espirazione), la potenza antropologica del simbolo della Porta viene infatti applicata dal quarto vangelo a Cristo stesso. Infatti, attraverso la porta che è Cristo stesso, si entra e si esce[5]. Entrare e uscire è tipica formula polare semitica che indica una totalità, tutta la vita umana riassunta nei due atti fondamentali di entrare e uscire: dalla nascita, l’uscita dal seno materno, all’uscire ed entrare in casa e negli spazi della vita, fino all’uscita definitiva con la morte. Il simbolo della Porta applicato a Cristo indica dunque il compito del cristiano di vivere ricominciando sempre la sequela di Cristo, ovvero passare attraverso la Porta che è Cristo. La vita in abbondanza portata da Gesù è questa nostra unica vita, questa innestata in Cristo è risignificata. Il testo evangelico parla di un’uscita, di un esodo che il Cristo pastore fa fare alle sue pecore, a coloro che sono suoi: più chiaramente detto nei vv.3-4. Il vocabolo usato da Giovanni per indicare l’ovile, il recinto delle pecore (Gv.10,1) non è il termine usuale per indicare questa realtà, ma il termine aulé, che indica il vestibolo del tempio[6], l’atrio del tempio. Anzi, in Gv. 10, 4 si parla di cacciare fuori, ekballein, con il verbo usato anche in Gv 2,13-22 quando si tratta della cacciata dal tempio delle pecore e degli animali per i sacrifici. Come detto, al v. 10 si parla di ‟sacrificare”, e i sacrifici si fanno al tempio; qui vengono denunciati ladri e briganti, altre volte, riprendendo il profeta Geremìa che denunciava che il tempio era diventato spelonca di briganti, di ladri, di lestaì (Ger 7,11), Gesù aveva pronunciato parole simili sul tempio e su coloro che lo avevano ridotto a luogo di commercio e di compravendita, di affari economici[7]. Insomma Giovanni vuole dire che non è il tempio ma il Corpo di Gesù, la vita di Gesù culminata nella sua morte e resurrezione, che dà accesso alla comunione con Dio, è la Porta che immette nella vita con il Padre. Questo il senso già delle parole profetiche di Gv 2,19-22, quando Gesù parlava del tempio del suo corpo. L’esodo infatti non è solo un movimento negativo, di uscita, di presa di distanza, bensì anche di ingresso, è un movimento esistenziale totale. Ormai tutta la vita, colta come sequela di Gesù Cristo, è un movimento di esodo, di liberazione e salvezza. Si tratta di passare attraverso la porta che è Cristo stesso: allora uno ‟entrerà e uscirà”, cioè vivrà pienamente la sua vita umana in Cristo, trovando nutrimento in Cristo. Se poi Cristo è la ‟Porta” che conduce alla salvezza,(Gv 10,9) e se la porta fa parte dell’edificio a cui permette l’accesso, Gesù è al tempo stesso il mediatore della salvezza e la salvezza stessa. Gesù è la Via verso il Padre, ma è anche la Vita (Gv 14,6): in Gesù troviamo la vita del Padre. Tutta la storia della salvezza è collocata tra due porte: la” Porta del Paradiso”, da cui i progenitori vengono scacciati dopo il peccato originale e la “Porta della Gerusalemme Celeste” attraverso la quale si entrerà nella salvezza eterna. Sono, comunque, tante le porte ricordate nella Bibbia, ma tutte svaniscono davanti all’affermazione di Gesù: ‟Io sono la Porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato” (Gv.10,9).
La Porta: riflessione teologica e considerazioni spirituali
La Porta è stretta e per entrare in essa è necessario ridimensionarsi attraverso la conversione. Spesso, soprattutto nel periodo medievale, le porte delle Chiese ‘parlano’ attraverso le loro iscrizioni come voce di Cristo stesso il quale invita alla conversione. Nella Cattedrale di Modena si legge: ‟Hincvos per gentes cum corpore flectitementes” (voi che passate da qui piegate col corpo anche la mente); Piegare: non nel senso di reverenza, ma nel senso di mutamento, ecco perché San Paolo parla di assumere i sentimenti di Cristo il suo pensiero per essere uomini nuovi. Egli nella lettera ai Filippesi afferma: ‟Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5).L’apostolo, mentre si trova in carcere a causa della sua predicazione, scrive una lettera alla comunità della città di Filippi. Questi che si sono impegnati con generosità nella nuova vita, testimoniando l’amore cristiano, Paolo l’incoraggia ad andare avanti, a crescere ancora come singoli e come comunità, e per questo ricorda loro il modello, dal quale imparare lo stile di vita: Gesù, sino ad assumere il suo stesso vivere. Il termine che usa Paolo èphronesis, in greco φρόνησις che vuol dire saggezza, sapienza, intelligenza. In altri termini S. Paolo ci chiede di piegare, cambiare il nostro modo di guardare la realtà e inteligere cioè guardare la realtà alla maniera di Cristo o meglio con la stessa Sapienza e intelligenza di Gesù, direi con lo stesso discernimento di Lui, di Gesù. Per riconoscere e coltivare in noi il sentire, il pensare, il discernere di Gesù, riconosciamo prima di tutto in noi stessi la caducità e la presenza del suo amore, la potenza del suo perdono; poi guardiamo a Lui, facendo nostro il suo stile di vita, che ci spinge ad aprire il cuore, la mente e le braccia per accogliere ogni persona così com’è. Evitiamo ogni giudizio verso gli altri, ma invece lasciamoci arricchire dal positivo di chi incontriamo, anche quando è nascosto da un cumulo di miserie e di errori e ci sembra di ‟perdere tempo” in questa ricerca. Il sentimento, o meglio il pensare, come Lui, significa assumere il suo atteggiamento e tra gli atteggiamenti ce n’è uno che è più forte che possiamo fare nostro ed è l’amore gratuito, la volontà di metterci a disposizione degli altri con i nostri piccoli o grandi talenti, per costruire coraggiosamente e concretamente rapporti positivi in tutti i nostri ambienti di vita; è saper affrontare anche le difficoltà, le incomprensioni, le divergenze con spirito di mitezza, tenerezza e con la determinazione di trovare le strade del dialogo e della concordia. Ecco il senso vero di valicare la Porta che è Cristo stesso, il mediatore non solo tra l’uomo e il Padre, ma Egli è la Porta, la mediazione tra gli uomini stessi[8]. Qui Egli è anche Porta stretta che ci aiuta a comprendere cosa vuol dire passare per la Porta che è Lui, il Cristo. Egli parla di una «porta stretta» (Lc 13,24) attraverso la quale bisogna «lottare» con noi stessi, col nostro “io” che spesso è un muro d’abbattere per entrare in rapporto fraterno con l’altro[9]. Così, non ci sarà nessuna preferenza, nessun diritto acquisito, nessun privilegio da vantare («abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza»): hanno sì ascoltato Gesù («tu hai insegnato nelle nostre piazze»), ma non si accenna a qualcuno che abbia voluto diventare suo discepolo. Nel vangelo di Matteo si va addirittura oltre, fino alla pretesa di accampare diritti in nome di un falso apostolato, i cui esiti si percepiscono dai frutti: «ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti, dunque, li riconoscerete» (Mt 7,17-18). Pertanto, vengono esclusi anche quanti dicono: «Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?» (Mt 7,22). Questi tali sono rimasti sulla soglia dell’insegnamento di Gesù, non hanno valicato Lui Porta, pur compiendo tutti i riti che evocano Lui Porta d’attraversare; questi non si sono impegnati in maniera reale, perché non hanno acquisito lo stile di Gesù, il suo vivere, il suo pensiero, la sua tenerezza e mitezza. Quindi non basta voler entrare per passare attraverso la Porta, né tantomeno c’è da superare una calca: la lotta cui si fa riferimento è la stessa che il Cristo ha affrontato nella sua passione (Lc 24,44: «entrato nella lotta, pregava più intensamente, e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadono a terra»), oppure – così il vangelo di Matteo – le «tribolazioni» e le persecuzioni che riempiono il cammino dei discepoli. La salvezza, dunque, si accoglie con la perseveranza di scelte libere in Cristo divenendo Lui, acquisendo il suo discernimento, il suo pensare e agire. Pertanto la ‟Speranza non delude”, così come recita la bolla[10] d’indizione del Giubileo, perché la Speranza è Lui difronte al quale bisogna stare, e con Lui difronte al fratello, attraversare il muro dell’indifferenza e del pregiudizio. Sì, siamo chiamati a stare difronte a Gesù al Fratello per eccellenza così da imparare a sostare, vivere con tutti gli altri fratelli. La Speranza è un appello dell’Apostolo Paolo al discernimento nella fede, per imparare ad avere una fede pasquale che ci coinvolge e ci avvolge. Il rischio per ognuno di noi è la delusione, lo sconforto, la sofferenza, la perdita d’animo. Invece la Speranza è collegata necessariamente alla fede che ci apre gli occhi alla Verità, che è Gesù stesso. Si tratta della Speranza cristiana, che è appuntamento continuo, nel già e non ancora, e cioè tra la nostra umanità in cammino e l’eternità della perfezione divina, svelata in Gesù Cristo. In tal senso diverse sono le accezioni con le quali gli evangelisti usano l’immagine della Porta. L’evangelista Matteo usa l’immagine della «porta della città», la quale una volta chiusa, lascia accanto a sé un passaggio a cui si accede uno alla volta, Luca parla invece della semplice «porta di casa», che viene chiusa con una catena. Matteo, in aggiunta, sull’immagine suggerita dalle antiche scritture, oppone alla «porta stretta», la «porta larga» e la «via spaziosa… che conduce alla perdizione» (Mt 7,14). Una sola in definitiva è la Porta che è il Signore stesso. Perciò «pochi sono quelli che trovano» la strada per la «vita» (Mt 7,14), o, detto in altro modo, «molti sono chiamati, ma pochi eletti» (Mt 22,14). E qui scaturisce un’altra conseguenza: in Luca, diversamente da Matteo, l’accogliere gli ultimi ospiti che possono entrare per la porta fa seguito all’esclusione dei primi che cercavano di entrare. Se Matteo parlerà solo di oriente e occidente (Mt 8,11: «io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli»), in riferimento ai luoghi dell’esilio a Babilonia e della schiavitù dell’Egitto, Luca parla dei quattro angoli della terra (Lc 13,29: «da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno»), da cui tutte le nazioni affluiranno alla Porta del regno. Proprio per questo, anche se alcuni arriveranno per ultimi alla porta, diventeranno primi, al posto di coloro che accampano privilegi inconsistenti. Così in ogni maniera l’annuncio evangelico è sempre aperto alla Speranza. D’altronde, nel vangelo di Giovanni come abbiamo già sottolineato Gesù dice proprio di sé stesso: «Io sono la Porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10,9). E proprio Gesù, in qualche modo è entrato nella porta stretta della passione, e si tratta di entrare con Lui nella Pasqua da realizzare nella nostra vita per essere noi i soggetti che passano dalla morte alla vita. I discepoli sono le dieci vergini che aspettano lo Sposo e il regno dei cieli e simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro a Lui, allo Sposo. Le dieci vergini erano chiamate ad attendere lo Sposo, ognuna con la propria lampada, ma non tutte avevano avuto cura di portare con sé l’olio per accendere la fiamma e farla durare il più possibile, per accogliere festanti il ritorno dello Sposo, per dare luce alla sua piena manifestazione nella gloria. Per essere saggi non basta preoccuparsi dell’immediato, ma è necessaria – per così dire – una visione d’insieme. A che cosa serve avere una lampada, se non può essere alimentata? I cinque esseri umani che portano le lampade senza preoccuparsi dell’olio erano, forse, mossi da buone intenzioni, ma queste buone intenzioni erano volte ad illuminare il proprio ego qui ed ora, piuttosto che a dare sempre luce alla luce, ad illuminare lo Sposo. Come scrive E. Bianchi: «Qui il discernimento di Gesù è sottile e smaschera una forma di ipocrisia tipicamente “religiosa”: si può presumere di compiere prodigi nel nome di Cristo e invece ingannarsi miseramente […] Non è sufficiente neppure compiere gesti carismatici o eclatanti, perché queste opere possono trasformarsi in idoli seducenti in quanto creati dalle nostre mani, in azioni che danno gloria a chi le fa. No, ciò che il Padre vuole è la misericordia, come Gesù ha affermato citando il profeta Osea: “Misericordia io voglio, non sacrificio” (Os 6,6; Mt 9,13; 12,7)»[11].Se vi è una logica retributiva in questa parabola – più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: «Signore, Signore, aprici!». Ma egli rispose: «In verità io vi dico: non vi conosco» -, essa non ne rappresenta il centro. Il cristiano non è chiamato ad essere vigile per la paura del ritorno di Gesù, del suo giudizio. Si è, invece, chiamati a conformare la propria esistenza alla logica di Gesù (e del Padre), alla logica della misericordia, in ogni attimo della propria vita, a prescindere da un ritorno, un giudizio imminente. E quest’olio, l’olio da procurarsi, vivere nella misericordia per donare a piene mani misericordia; la misericordia va cercata quotidianamente dentro sé stessi, perché non si possiede mai, ma in essa si può vivere e rinascere. Un olio che non può essere prestato o mercanteggiato, perché, se così fosse, verrebbe «a mancare a noi e a voi».
Conclusione
La salvezza cristiana non è altro che la vita di comunione con la Trinità. Per questo professiamo la ‟vita eterna” e fin d’ora ne portiamo i segni dentro di noi a partire dal Battesimo. Con questa espressione, soprattutto nella professione di fede, si fa sintesi dell’intero contenuto della Speranza cristiana; per questo, la “vita eterna” è interscambiabile con il “Regno di Dio” e con la “visione di Dio” di cui ripetutamente parlano i testi neo testamentari. «Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34), non è solo la conclusione della parabola, ma è ugualmente parte della promessa che il Signore ha voluto fare a quanti credono in Lui e vivono delle opere di Lui e assumono il suo atteggiamento di misericordia. Ora attraversare la Porta vuol dire sia tutto ciò che abbiamo detto, ma vuol dire in conclusione e in sintesi riporre in Lui la nostra fiducia totale. Questo sicuro atto di abbandono all’amore è vivere la Speranza cristiana che in nulla arretra, ma che tutto vince perché sorretta dalla presenza dello Spirito Santo che infonde l’amore nella vita che non avrà mai fine. Le forme di insicurezza che sono spesso presenti nell’esistenza quotidiana dovrebbero trovare superamento in Lui, Gesù che è la Speranza stessa la quale a sua volta è sorretta dall’amore. Di volta in volta, questa si manifesta come umiltà nel saper accettare sé stessi; come audaci di saper confidare in Dio e come sincero abbandono alla sua volontà che in ogni caso è sempre espressione del suo amore verso di noi. Costruire la vita sulla roccia della Speranza, pertanto, è possedere la certezza dell’amore che non ha fine e che non può trovare il suo limite nella morte. Solo nella misura in cui si è arroccati in Lui e cioè nell’amore si ha la sicura Speranza che niente e nessuno potranno separare dall’amore che presenta il suo volto, ultimo come quello della salvezza.
[1]Rm., 8,2-30.
[2]Cf., De Nicola A., Il primo giubileo della storia. La perdonanza di Celestino V, Edizione ONE Grup, L’Aquila 2023.
[3]Ef., 2, 13-15a.
[4]Cf., Valentini S., Giubilei 1300 – 2000 Uomini e Storie, Edizione Fotogramma Roma 1999.
[5] Cf.,Gv 10, 9.
[6] Cf., Es 27,9; 2Cr 6,13; 11,16; Ap 11,2.
[7] Cf., Mc 11,17.
[8]Gesù Cristo è mediatore in maniera oggettiva tra Dio e gli uomini mentre in maniera soggettiva tra gli uomini stessi. La mediazione di Cristo tra gli uomini necessita un’adesione soggettiva; in altri termini ogni soggetto aderisce a Cristo e per la mediazione di Cristo, che ci ha resi fratelli, entra in comunione con l’altro. Questo comporta una adesione libera e passa per il paradigma Cristologico, Trinitario che per lo Spirito Santo opera sempre la comunione. Tale mediazione si realizza se si accoglie lo Spirito del Risorto che fa sì che accada la comunione.
[9]Cf., Bianchi E., Una lotta per la vita, San Paolo Roma 2024.
[10]Francesco, Spes non confundit, Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, Paoline Roma 2024.
[11] Binchi E., L’arte di scegliere. Il discernimento, San Paolo Roma, 2018, pp. 10-11.
