
Dalla radice Biblica del Giubileo alla celebrazione per vivere da Figli e Fratelli
Il significato del Giubileo risale alla rivelazione biblica e prende le mosse dall’Antico Testamento e poi si sviluppa e si fonda in Cristo Gesù. La sua radice fondamentale è la Sacra Scrittura in essa si coglie sia il valore religioso e sia quello sociale e, i due valori armonicamente delineano atteggiamenti significativi per rinnovare continuamente ogni uomo, il quale è chiamato a rinnovarsi, purificarsi e così incidere personalmente e comunitariamente nella vita del mondo per rinnovarlo dal didentro[1]. In ogni giubileo la Misericordia è la protagonista la quale è donata sia da parte di Dio sia da parte dell’uomo agli altri fratelli. L’uomo con l’evento del giubileo è chiamato a chiedere perdono, per accoglierlo e riceverlo da Dio Amore, ma a sua volta ad egli è chiesto di donarlo al fratello e a ogni prossimo. Da una parte egli l’accoglie volutamente e liberamente perché accoglie l’evento di Gesù che ci ha redento o meglio, ci ha liberati da ogni forma di schiavitù, – questa è concentrata nella schiavitù del nostro stesso ‟Io” che non ci apre né a noi stessi, tanto meno agli altri – la quale non ci permette di essere misericordiosi.
Andiamo per gradi, per cogliere il senso di quanto anticipato e diamo uno sguardo alla radice biblica. L’origine del termine giubileo è nell’antico Testamento e la sua radice filologica rimanda al suono del corno di montone, ‟jobelˮ, che da Gerusalemme si diffondeva in tutto il Paese in corrispondenza con la festa ebraica del ‟Kippurˮ, detta festa dell’espiazione del peccato di Israele, nel decimo giorno del mese di Tishri (il nostro settembre-ottobre). Esso era suonato in un anno particolare, l’ultimo di sette settimane di anni, a preannunciare la santità del cinquantesimo anno, come si legge nel capitolo 25 del libro del Levitico. Inoltre il “Giubileo” è descritto, sempre nell’Antico Testamento, anche ad un altro concetto, di carattere più contenutistico, al di là della pura ritualità al concetto di liberazione. A tale proposito va ricordato che l’antica traduzione in greco della Bibbia – conosciuta come quella dei ‟Settantaˮ – ha tradotto il termine ebraico ‟jobelˮ con il greco ‟áphesisˮ, cioè “liberazione, remissione, perdono”. Ha considerato cioè come il Giubileo non è solo un rito, ma n’esperienza di vita che si auspica incisiva per ogni uomo e per la società intera.
Secondo la Scrittura la terra di Israele era di proprietà delle tribù e delle famiglie ed era stata donata da Dio in usufrutto dopo la conquista di Canaan. Dunque la terra restava di Dio. Quando una terra veniva alienata, venduta, si modificava la mappatura originale, pertanto ogni cinquant’anni, nell’anno giubilare, la mappatura originale si ricostituiva, tranne che, per la tribù di Levi che riceveva dalle altre tribù contributi per il suo servizio religioso. Analoga era la procedura giubilare per l’azzeramento dei debiti, così che tutti si ritrovassero a un medesimo livello di partenza, come a dire di nuova fraternita cioè alla pari rimanendo solo il Signore colui da cui tutti dipendono.
Tali indicazioni giubilari erano proposte bibliche che spesso venivano disattese e i profeti constatavano amaramente ciò, ed è per questo che invitano costantemente alla conversione. La religione sia Ebraica come quella giudeo – cristiana, non è sono una semplice proposta, delle pur meritevoli moraleggianti indicazioni, ma ha una funzione precisa, quella di stimolare la conversione alla ricerca dell’eterno.
Nel libro di Ezechiele (46, 17) si evidenzia come l’anno giubilare sia dato sia per il riscatto, anche delle persone, come quello della libertà a chi per la miseria aveva dovuto rinunciare alla sua libertà. Non è poi un discorso che riguardi solo il passato: oggi di schiavitù ce ne sono anche più di un tempo, di singoli (pensiamo ad esempio alle prostitute o ai bambini costretti ad elemosinare) e di popoli (basta constatare i ricatti cui soggiacciono da parte delle multinazionali, di Stati o di organismi internazionali). Nel capitolo 55 del Levitico si condanna anche l’usura, che era diffusissima ad esempio in Mesopotamia, dove il tasso poteva variare dal 17 al 50%: ‟Se tuo fratello che è presso di te cade in miseria (…), aiutalo, (…) non prendere da lui interessi né utili; ma temi il tuo Dio e fa’ vivere tuo fratello presso di te”.
Il Nuovo Testamento di fatto non contiene il termine giubileo, ma il termine corrispettivo di “liberazione”. Il termine liberazione anzi precisiamo il termine greco ‟áphesisˮ che significa non solo liberazione, ma anche” remissione, perdono”. In particolare lo leggiamo nel Vangelo di Luca (4, 18-19), di cui ecco un passo molto significativo, anzi il passo decisivo nel quale il giubileo è radicato cristicamente. Gesù Cristo infatti inaugura il suo Giubileo con la sua nascita – manifestazione piena dell’Incarnazione di Dio – ma questo l’annuncia, anzi l’ha aperto e inaugurato ufficialmente nella storia nella sinagoga di Nazaret Cf. Lc 4,14-30 quando ,dopo che ebbe letto il rotolo del profeta Isaia ,proclamò che quella profezia in Lui si avverava; anzi lì si aprì l’unico e perennemente giubileo che oggi è in vigore; infatti Egli nella sinagoga leggendo Isaia affermò: «Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato e mi ha inviato a portare ai poveri il lieto annunzio, ad annunziare ai prigionieri la liberazione e il dono della vista ai ciechi; per liberare coloro che sono oppressi e inaugurare l’anno di grazia del Signore. Poi dopo avere proclamato il profeta asserì: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». Qui ci troviamo difronte all’oggi teologico di Gesù, perché quell’ oggi non vale solo per allora ma, continua ad essere valido anche adesso.
Lo sfondo sul quale si colloca e dal quale ha origine questa categoria già neotestamentaria è ancora una volta costituito dall’Antico Testamento: in particolare il grande gesto di «redenzione» dell’Esodo, della liberazione di Israele dalla schiavitù dell’Egitto, operata da Iahvè, il quale precisamente in questo modo si mostra veramente sommo redentore del suo popolo. Per comprendere le implicazioni di questa qualifica riferita a Iahvè e al suo intervento di salvezza, bisogna tenere presente un elemento caratteristico della convivenza e dell’0rganizzazione Sociale del Popolo di Dio Anticotestamentario: con l’appellativo di redentore (in Ebraico go’el: colui che redime, che paga il riscatto, riscattatore) gli antichi Ebrei si riferivano al parente prossimo il quale, nel caso che un cugino fosse caduto in schiavitù o in miseria, interveniva per liberarlo, per riscattarlo, per redimerlo. La legge definiva la figura e i compiti di questo personaggio; Egli aveva il diritto-dovere di recuperare i beni che i suoi parenti avessero eventualmente perduto o ceduto ad altri. (Lv 25, 25) L’intervenire in questi casi costituiva appunto il cosiddetto diritto familiare di riscatto un diritto che era riservato e riguardava il parente più vicino di chi era caduto nell’indigenza o nella schiavitù. Applicando a Iahvè la qualifica di redentore, presentando l’intervento divino a favore del suo popolo come una redenzione, l’Israele Anticotestamentario esprime la sua coscienza di avere Dio come «parente prossimo» il quale proprio per questo non può tollerare che «i suoi», la sua proprietà peculiare (Es 19,5 s), il suo «figlio primogenito» (Es 4,22) rimangano schiavi ed è per questo che interviene e li riscatta prima nella schiavitù dell’Egitto e poi nella schiavitù di Babilonia (Cf. Es 6, 6-7; Is 41,14; 44-,24)[2]. Ora, secondo il NT, tale intervento liberatore, riscattatore, redentore, si attua pienamente con Gesù e in Gesù; i testi classici neotestamentari che interpretano in particolare la morte di croce come redentrice sono soprattutto tre: Mc 10,45; Mt 20,23; 1Tm 2,5-6. Il senso fondamentale del discorso è che in Gesù, in particolare nella sua Pasqua, Dio rivela definitivamente la sua parentela con noi: per questo la morte in croce è redenzione, e l’opera della salvezza realizzata da Cristo può essere qualificata come redentrice ,non perché ci sia qualcuno in cui Dio sia tenuto a pagare un prezzo fissato per la nostra liberazione , ma perché il suo essere nostro «parente in Gesù fattosi nostro fratello», il suo diventare uno di noi nel Figlio suo, implica una condivisione piena della nostra situazione di schiavitù, per cambiarla dall’interno[3]. Detto ciò si coglie con più chiarezza che il giubileo che la Chiesa celebra ogni 25 anni lo fa per due peculiari intendimenti: primo vuole vitalizzare e celebrare, per portare alla memoria, il Giubileo che è in atto già nel tempo, perché la storia con la venuta di Cristo è entrata nel suo giubileo; secondo intento aiutare a vivere nella propria carne la vera relazione con Lui e la realizzazione dei discepoli di Cristo. Questi attraversando simbolicamente la Porta che è Gesù, dice infatti Giovanni: «Io sono la porta delle pecore», interiormente, per il valore che la Porta santa esprime, attraversano la mediazione di Cristo che li rende creature nuove[4]. Il Giubileo allora è un tempo di Grazia speciale perché si esca dall’essere assonnati e si assuma l’atteggiamento del vegliardo; sì, siamo chiamati ad essere desti su noi stessi, sui fratelli e sulla storia. Ecco che allora ‟La speranza non delude” perché la Speranza è Lui difronte al quale bisogna stare. Sì, siamo chiamati a stare difronte a Gesù al Fratello per eccellenza per imparare a sostare e vivere con tutti gli altri fratelli. La Speranza è un appello dell’Apostolo al discernimento nella fede, per imparare ad avere una fede pasquale che ci coinvolge e ci avvolge. Il rischio per ognuno di noi è la delusione, lo sconforto, la sofferenza, la perdita d’animo. Invece, come si diceva, la speranza vera è collegata necessariamente alla fede che ci apre gli occhi alla Verità, che è Gesù stesso. Si tratta della vera Speranza cristiana, che è appuntamento continuo, nel già e non ancora, e cioè tra la nostra umanità in cammino e l’eternità della perfezione divina, svelata in Gesù Cristo. Perciò questo Giubileo è, al pari dei precedenti, profondamente mariano in quanto è Maria che ci ha offerto la Porta, la Grazia, ma ce l’ha offerta perché prima di tutto l’ha accolta. Con Maria possiamo essere fedeli a suo Figlio se la imitiamo e come Lei Cooperiamo con Dio e vivere facendoci Madri e Padri dei nostri simili dei nostri Fratelli. Il primo segno di speranza che chiede Papa Francesco è raggiungere la Pace. In che maniera possiamo contribuire nel nostro piccolo? I conflitti in Ucraina e in Medioriente non sono la causa ma l’effetto di una degenerazione dei rapporti umani, di una complessiva disumanizzazione della società. La pace è una priorità assoluta. Senza pace vi è soltanto la morte. Vivere il Giubileo significa trovare allora prima di tutto la Pace in noi stessi e ciò è necessario perché essa è sorgente di speranza, diffusiva che come un’onda si propaga e opera in ogni ambiente in modo cristiano. La pace è un dono d’ospitare in noi e donare agli altri. Bisogna chiedere la pace. E il Giubileo è un anno speciale di preghiera nel quale individualmente e collettivamente possiamo tracciare un sentiero nuovo di riconciliazione umana. Ma chiediamoci come possiamo vivere, qui e ora, con speranza e testimoniarlo a chi ci circonda? È molto importante nella vita cristiana non perdere mai il contatto con le cose piccole, con i gesti minimali e invisibili ai più; questo avviene collegando la pratica della carità innanzitutto alle persone che ci sono intorno, premettendola alle azioni quotidiane che facciamo, alla cura dei particolari compiti che siamo chiamati a fare, con tutti i sacrifici che accompagnano la nostra vita familiare e professionale. Il Giubileo è anche un progetto di rinnovamento della vita spirituale in famiglia, nonché un’occasione di dare un senso cristiano all’amicizia. Non si può vivere la Speranza come virtù egoista e non si può ottenere la Speranza da soli. Ovviamente non è una semplice resilienza d’assumere, ma è vivere in Gesù la vita con tutte le relazioni che la riempiono. Si tratta di non ripiegarci in noi stessi ma d’occuparci delle persone che sono accanto a noi, disinteressatamente, non tradendo le loro aspirazioni, la loro fiducia, le loro attese. In altri termini si tratta di essere uomini nuovi per essere persone che incarnano pienamente l’immagine di Cristo come suoi discepoli e apostoli, nonostante i limiti e le difficoltà che abbiamo e incontriamo nel quotidiano.
[1] Cf., G. Ravasi, Il Significato del Giubileo. L’Anno Santo dalla Bibbia ai nostri giorni, EDB, 2015.
[2] Cf., M. Serenthà, Gesù Cristo ieri, oggi e sempre. Saggio di Cristologia, Elledici, Torino 2005, pp. 350 -369.
[3] Cf., V. Impellizzeri, Coscienza filiale e dono della fra(e)ternità. Saggio di cristologia nel contesto. Città Nuova, Roma 2024.
[4]Ovviamente non è un atto magico e neanche la Porta Santa lo è, per quanto Santa sia ritenuta. Essa non ha effetti magici, ma il gesto è un sacramentale che sigilla gli atti sacramentali e caritativi e relazionali di fraternità che previamente e successivamente si compiono.