20 Aprile 2024

Commento alla domenica delle Vocazioni

di don Luca Crapanzano - Rettore del Seminario diocesano

La Quarta di Pasqua è conosciuta anche come la domenica del buon Pastore. Tutta la liturgia è incentrata sull’autoproclamazione di Cristo buon pastore, inviato dal Padre per dare la vita e radunare i figli di Dio dispersi. Oggi celebriamo anche la 61° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, rileggendo all’interno dell’unica chiamata alla santità le varie vocazioni, da quella familiare a quelle al ministero ordinato e alla vita consacrata. La liturgia della Parola presenta il rapporto tra Dio e il suo popolo secondo l’immagine del gregge radunato e custodito dal suo pastore. Le prime due letture presentano in modo chiaro e diretto l’azione dello Spirito del Risorto che irrora la storia e che produce tuttavia incomprensione e antitesi. Anche dinanzi al “beneficio recato ad un uomo infermo” (Atti 4,9), Pietro viene interrogato e deve dare spiegazione. Piuttosto che discutere sul fatto straordinario che stava dinanzi a tutti e farsi svegliare dalla realtà che si stava imponendo, la guarigione di un ammalato appunto, l’attenzione si concentra sul “per mezzo di chi” (Atti 4, 7) è stato guarito. Ecco la tentazione di ridurre la portata salvifica del nome di Gesù ad un evento gestibile e decodificabile, anzi, in questo caso da mettere sotto processo da parte di chi aveva responsabilità e potere religioso e politico sul popolo.  La guarigione di un ammalato crea una domanda sul potere che vuole essere conosciuto per essere dominato o per lo meno gestibile, invece Pietro e le prime comunità vivono l’azione dello Spirito che ricolma le loro vite sino al punto da trasbordare. In greco exousia (autorità) deriva da exestin– che a a che fare con estasi, ciò che è libero, ciò che è fuori- e significa la libertà incondizionata di azione. Nell’uso rabbinico essa oscilla tra il concetto ebraico di autorità e potere del sovrano, e il potere di disporre all’interno di certi gruppi sociali. In Atti ricompare la questione che abbiamo trovato nei Vangeli ossia lo scontro tra il potere degli anziani, degli scribi e dei sacerdoti, e l’autorità di Gesù. Al Tempio Gesù aveva rovesciato molto più dei tavoli dei cambiavalute, aveva sfidato la menzogna e l’ipocrisia di chi voleva gestire secondo la logica del mercato l’azione benefica di Dio per il suo popolo. E la domanda dei capi del popolo è in questo contesto fondamentale e decisiva. Essa è la stessa che sorge, spesso, in ciascuno di noi soprattutto in chi svolge un servizio o un ministero nella Chiesa. Siamo realmente liberi o ci rapportiamo all’autorità di Gesù con la logica del mondo che condiziona o annulla la nostra libertà? Dietro la domanda sull’autorità vi è quella più profonda sul destino e sull’identità. dell’uomo, sul suo rapporto con Dio. La risposta di Pietro e delle prime comunità cristiane narrate da Atti, ricalcano la metodologia dell’incarnazione di Gesù, ci riporta con i piedi per terra, ci mostra un fatto e ci invita a giudicarlo.

Nella seconda lettura tratta dalla Prima Lettera di Giovanni, troviamo un’altra declinazione dell’azione libera e liberante dello Spirito: la figliolanza divina e l’incomprensione con il mondo. Le due cose sono strettamente unite e ricordano alla comunità dei discepoli la loro “non appartenenza” alla logica del mondo e la partecipazione allo stesso destino del Figlio: per questo il mondo non vi conosce: perché non ha conosciuto lui(1 Gv 3,1). Il motivo di tutto questo è l’essere figli di Dio e vivere lo statuto alto dell’amore che rende liberi di annunciare una logica che non è di questo mondo ma che con il mondo ha a che fare perché gli immette semi di resurrezione e di vita. Paradossalmente questa azione benefica crea per i discepoli disagi, persecuzioni, incomprensioni e martirio e li situa in una terra di mezzo tra l’essere figli di Dio e ciò che saremo. Cosa si può desiderare di più dall’essere figli di Dio? Eppure l’autore della Prima lettera di Giovanni fa riferimento a questa tensione per rimettere i discepoli sempre e comunque in cammino. Non siamo arrivati, nessuno può sentirsi giunto a destinazione. Il rischio sarebbe quello della presunzione e del fondamentalismo. Pur essendo realmente figli di Dio siamo chiamati a restare con i piedi per terra condividendo la fatica della strada con tutti gli altri uomini e donne che incontriamo in attesa di un di più che non possediamo: ciò che saremo non è stato ancora rivelato (1 Gv 3,2). Il Vangelo di Giovanni che conclude il trittico della liturgia della Parola di oggi, mette in parallelo due modalità antitetiche di essere pastori: quella del mercenario che lo fa per soldi e quella del pastore che lo fa per amore. Le diversità sono presentate in modo plastico e fanno riferimento alla modalità di trattamento del gregge. Quasi a dire che per capire l’identità del Pastore basta guardare il rapporto che ha con il gregge. Il mercenario è presente al gregge, per certi versi se ne prende cura, però il Vangelo di oggi presenta drammaticamente alcuni tratti del suo comportamento. Anzitutto le pecore non gli appartengono, non gli importa realmente di esse e quando vede venire il lupo li abbandona alla dispersione. E’ interessante notare i termini utilizzati da Giovanni per capire che l’immagine a cui fa riferimento è simbolica del rapporto tra l’umanità creata e due modalità di “potere” su di essa: uno di servizio autentico poggiato sulla conoscenza personale delle pecore e che si prende cura e l’altro di abbandono alla dispersione e di negligenza. Entrambe le modalità sono presenti e saranno sempre presenti nel mondo. L’immagine del Buon Pastore che noi troppo facilmente associamo al ministero ordinato, in realtà qui è associata solo e unicamente a Gesù Cristo: io sono il buon Pastore. E’ lui solo il Buon Pastore, lui solo il mediatore tra Dio e gli uomini e la formula utilizzata dal Vangelo di Giovanni richiama la teofania sul monte Sinai narrata dal libro dell’Esodo, presentando il Figlio del Padre come il completamento della rivelazione e il suo Vangelo come le nuove tavole della legge. Se in modo analogico, a partire dalla prima lettera di Pietro (5,2) lungo i secoli si è associata l’immagine del Buon Pastore all’azione pastorale della Chiesa, è pur vero che il vero Pastore supremo resta sempre uno: Esorto dunque gli anziani che sono tra di voi, io che sono anziano con loro e testimone delle sofferenze di Cristo e che sarò pure partecipe della gloria che deve essere manifestata: pascete il gregge di Dio che è tra di voi, sorvegliandolo, non per obbligo, ma volenterosamente secondo Dio; non per vile guadagno, ma di buon animo; non come dominatori di quelli che vi sono affidati, ma come esempi del gregge.E quando apparirà il supremo pastore, riceverete la corona della gloria che non appassisce. (1 Pt, 5,1-4). Guardando il buon Pastore cerchiamo almeno di assomigliargli nella nostra azione pastorale di Chiesa, nei tratti di umanità trasparente, nelle modalità di servizio non dominante e non interessato e facendoci modelli del gregge camminando semplicemente con loro. Anche i consacrati, i presbiteri e i diaconi facciamo parte dell’unico popolo santo di Dio e siamo in cammino. Oggi non celebriamo la giornata della casta o della superiorità ontologica! La poetessa dei navigli Alda Merini in una bellissima raccolta poetica pubblicata nel 1984 dal titolo Terra promessa, si immagina anche lei in cammino verso la terra promessa e in compagnia con i personaggi biblici rivisita i luoghi sacri e li rivede tutti nella sua anima compresa la morte e la resurrezione di Gesù che tuttavia ha un contraccolpo storico: ho avuto anch’io la mia Palestina, le mura del manicomio… Noi tutti branco di asceti eravamo come gli uccelli e ogni tanto una rete oscura ci imprigionava, ma andavamo verso la messe,la messe di nostro Signore e Cristo il Salvatore. Fummo lavati e sepolti, odoravamo di incenso. Ma un giorno da dentro l’avello anch’io mi sono ridestata e anch’io come Gesù ho avuto la mia resurrezione. Ma non sono salita ai cieli sono discesa all’inferno da dove riguardo stupitale mura di Gerico antica. L’esperienza della resurrezione per la poetessa di Milano è una esperienza vera e reale ma ci rimanda all’inferno della storia per guardarla però con distanza e con speranza insieme. Si tratta di assumere uno sguardo luminoso. Spesse volte siamo trasparenti non perché trasfigurati dalla luce e dall’incontro vivificante con il Signore Gesù ma perché vuoti, senza consistenza e solidità. Che il bel Pastore ci dia la bellezza di uno sguardo rinnovato e speranzoso, per guardare senza sconti la realtà ma con la distanza di fede di chi vede sgretolarsi le mura di Gerico avendo sullo sfondo un deserto da abitare.