Main Menu

Alla fonte delle parole

Daria Motta è Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Umanistiche di Catania. I suoi studi riguardano la Storia della lingua italiana e la Linguistica italiana: in particolare si occupa della lingua della letteratura di fine Ottocento e inizio Novecento; dell’italiano teatrale tra Settecento e Ottocento, con particolare riferimento alla pragmatica; dell’italiano dei mass-media, con specifico interesse per il doppiaggio degli audiovisivi angloamericani e per le sue interferenze nell’italiano contemporaneo. Ha pubblicato una monografia sulla lingua delle novelle  di Vita dei campi (La lingua fusa. La prosa di Vita dei campi dal parlato popolare allo scritto-narrato, Bonanno editore per la Fondazione Verga, 2011) e recentemente ha curato, per l’Edizione Nazionale delle Opere di Giovanni Verga, l’edizione critica del romanzo Una peccatrice.

Le parole della religione costituiscono un patrimonio culturale ricco, profondo e dalle radici antiche, un importante tassello dell’identità italiana che lega strettamente la comunità dei fedeli, ma riguarda anche chi si sente meno vicino alla Chiesa. Noi cercheremo da oggi di capire più a fondo il significato di alcune parole chiave della Chiesa, ricostruendo ove possibile i fitti intrecci che in esse legano il passato al presente, che ravvivano nella religione istanze più antiche, a volte di natura diversa, e che spesso vengono attualizzate nella cultura popolare contemporanea.
Partiamo dal “cuore” della dottrina, ciò che rende visibile e concreto l’invisibile che altrimenti sarebbe difficile da concettualizzare: il sacramento che, attraverso l’unione del Segno (gesti rituali ed elementi fisici, come acqua, vino, pane) e della Parola (formule che hanno un forte valore pragmatico, perché fanno sì che l’officiante, nel pronunciarle, compia anche un’azione), rappresenta nella dottrina cattolica il segno fisico della grazia divina.
La parola deriva dal latino SACRAMENTUM, che a sua volta corrisponde al greco mysterion: nei primi secoli i termini, entrambi in uso, si alternavano liberamente; gradualmente, però, prevalse la parola di origine latina, che probabilmente meglio consentiva ai Padri della Chiesa di marcare la differenza rispetto ai culti misterici pagani. La parola latina aveva un valore tecnico-militare e giuridico: nel primo caso si riferiva al “giuramento” di fedeltà prestato dal soldato che si arruolava e che, nel corso della cerimonia, recitava una formula rituale (sacramentum dicere). In caso di tradimento, il soldato maledetto sarebbe stato giudicato dagli dei. Nel senso più prettamente giuridico, il sacramentum era la somma di denaro che i contendenti di una disputa civile depositavano nel tempio e che poi sarebbe stata riscossa dal vincitore della causa. Il senso figurato del termine religioso risulta abbastanza trasparente: Tertulliano fu il primo a usarlo nel senso di “giuramento” in rapporto al battesimo, sfruttando la metafora militare secondo cui il credente viene arruolato nella milizia di Cristo. Anche col termine giuridico, però, è possibile rinvenire uno stretto legame: come il denaro era depositato per cauzione, e quindi per garanzia, i segni rituali dei sacramenti attestano che la salvezza per l’uomo è compiuta e quindi diventano garanzia della presenza della grazia divina.
Oggi, oltre che per riferirsi ai sette sacramenti della Chiesa cattolica, il termine è usato, solitamente al maiuscolo, in riferimento all’ostia consacrata, e in questo caso è spesso accompagnato da un aggettivo che indica devozione e rispetto (divino / santissimo S.).
Il viaggio della parola sacramento non si è arrestato con il passaggio dal linguaggio militare e giuridico a quello religioso, ma da questo è arrivato fino alla lingua comune e colloquiale: in questo caso possiamo riferirci alla locuzione «con tutti i sacramenti» (ad es. fare qualcosa con tutti i sacramenti) che vale “scrupolosamente”, o al verbo derivato sacramentare, ormai poco usato, che si riferisce all’atto di “giurare” o di “affermare risolutamente” («e dice e sacramenta ch’egli è suo padre, e che non morrà contento se non giunge prima a vederlo» I. Nievo, Le confessioni di un italiano, cap. XVII).



Rispondi