Main Menu

La delicatezza di un “permesso?”

Era l’udienza generale del 13 maggio 2015, quando Papa Francesco propose le tre parole che “aprono la strada per vivere bene nella famiglia”: permesso, grazie, scusa. Mettendo in guardia da un galateo privo di sostanza, il Papa invitava a considerare come le buone pratiche rappresentate da queste parole “racchiudono la grande forza di custodire la casa, anche attraverso mille difficoltà e prove”.

Permesso? È un’espressione che non consideriamo del gergo familiare perché riteniamo che all’interno delle mura domestiche la confidenza autorizzi a non usarla. Pensiamo che chiedere se sia permesso è formalità da usare a scuola, al lavoro, in un ufficio pubblico o sulla panca di una chiesa, ma non certo a casa! Eppure tutte le volte che non chiediamo all’altro la sua disponibilità ad accogliere una nostra richiesta o anche solo la nostra presenza fisica, stiamo abbassando la qualità della convivenza, la rendiamo meno umana. Ricordo che prendevo in giro la mia fidanzata perché chiedeva “posso?” anche solo per aprire il frigorifero nella cucina dei futuri suoceri. Capii con gli anni la lezione. Quel rispetto del luogo non era in mia moglie un bon ton posticcio, ma uno stile che avrebbe innervato molti altri ambiti della vita. Chiedere permesso è un’arma segreta dell’incontro amoroso fra i coniugi: una sorta di antidoto alle tante, piccole, violenze domestiche che si possono consumare sotto le lenzuola. Poi, se per Grazia la famiglia si allarga, saper chiedere permesso, non pretendere come un diritto l’attenzione esclusiva degli altri famigliari diviene non solo un buon comportamento, ma anche una necessità. Basta una cena a tavola per capirlo: chieder permesso anche solo per parlare è arte vitale, senza la quale qualcuno si fa male o resta deluso. C’è chi dimena la mano cercando di farsi notare (invano), chi rinuncia a priori e tace finché l’uditorio non si riduce drasticamente e gioca solo nei supplementari con la mamma rimasta in esclusiva; chi ingenuamente alza il tono della voce o aumenta il numero di parole al secondo per cercare di sbaragliare la concorrenza; chi si lamenta, accampando qualche bisogno o dolore più grande degli altri. Tutti vogliamo essere ascoltati, ma quanta fatica facciamo ad ascoltare e anche a ricevere critiche dagli altri: chi non ha mai detto a qualcuno che lo correggeva “come ti permetti?” Molti bambini non conoscono più l’espressione: “mi puoi dare il permesso?” e si comportano come se ubbidire ai genitori sia solo un dazio da pagare. I fili di cui si intesse la vita famigliare sono relazioni d’amore e in quanto tali possono essere messe tutte alla prova della libertà. L’amore si radica in una volontà libera nell’offrire e nel ricevere: è saper accogliere la libertà dell’altro, rispettare i suoi tempi, i silenzi, pure le sue ostilità. Questo è lo stile che più si avvicina a quello di Gesù che – proprio come ricordava il Papa in quella udienza – “sta alla porta e bussa” e perfino Lui non entra nella nostra vita se noi non glielo permettiamo.



Rispondi