La questione alimentare-religiosa sollevata dall’apostolo rappresenta un nodo da sciogliere per favorire la crescita nella fede dei fratelli e delle sorelle corinzie. Questi, pur essendo stati battezzati, dopo aver ascoltato l’annuncio di una vita nuova, secondo un insegnamento nuovo, che è la parola della croce (1,18), hanno ancora una coscienza debole, secondo Paolo. In questa lettera, il termine coscienza (συνείδησις) è sempre e soltanto usato nei discorsi sulle questioni alimentari tipiche di Corinto e del politeismo di questa città. Esse riguardavano le carni di animali offerti in sacrificio agli dèi, delle quali una parte veniva consumata nei banchetti sacri presso il tempio e un’altra era venduta al mercato. I familiari di Cloe, nella loro ricognizione sulla situazione della comunità, avevano posto a Paolo il quesito se fosse lecito o meno ad un cristiano partecipare a questi banchetti sacri presso il tempio o mangiare privatamente la carne dei sacrifici. L’apostolo condanna nettamente la partecipazione ai banchetti nel tempio pagano (10,14–22); invece, riguardo alle carni offerte agli idoli e poi vendute al mercato, egli afferma che gli idoli non sono nulla, quindi le carni dei sacrifici non sono sacre. Ma per risolvere le tensioni nella comunità, egli richiama il principio della carità. Il cristiano che si sente più sicuro e libero deve evitare di dare scandalo al fratello più debole, cioè a chiunque sia ancora debole nella coscienza. «L’amore edifica» perciò (8,1), esso irrobustisce, consegna la persona alla quotidianità, valorizza i legami tra i fratelli della comunità e profonde senso alla libertà di ognuno. L’esigenza avvertita dall’apostolo, infatti, è proprio quella del mutuo soccorso, della correzione fraterna, del consiglio e dell’istruzione comunitaria, in modo tale che la coscienza venga informata a partire da un gesto profondo, pieno di senso, carico di vitalità e forza come quello partecipato e coinvolto nell’intera esperienza di comunità. Correggere con imposizioni esterne, invece, una pratica rituale che ormai è patrimonio sociale, culturale, antropologico dei corinzi renderebbe inutile anche gli sforzi precedenti legati alla missione dei diversi ministri che si sono alternati nella città, se non addirittura il sacrificio di Cristo stesso (8,11). Importa veramente poco esprimere giudizi sul culto pagano e sui fratelli che ancora non hanno afferrato bene la differenza con il nuovo modo di vivere della comunità cristiana; mentre interessa e sta a cuore il destino di ciascun fratello e sorella, a proposito delle diverse situazioni critiche presentate all’apostolo dai familiari di Cloe: un destino contrassegnato da lacune varie nella conoscenza, nel senso di pratica, di esperienza, di vita fraterna vissuta con il tempo e maturata con gli anni, all’interno della quale anche la fede in Gesù Cristo è maturata fino a promuovere un nuovo stile di vita; un destino messo al centro di un’esercizio di potere (ἐξουσία, 8,9) come quello di mangiare o non mangiare le carni degli animali sacrificati nei riti pagani. L’apostolo avverte: «Badate però che questo vostro potere non divenga occasione di caduta per i deboli» (8,9) e lo fa riconoscendo, di fatto, un’autorità al sottrarsi o meno alla pratica dei costumi della città, in materia di questioni alimentari; per cui, anche il mangiare le carni di quegli animali diventa un modo per mettere in difficoltà il fratello più debole, meno attrezzato nella conoscenza dei dettagli della questione e cioè: le carni si possono mangiare tranquillamente dal momento gli dei non esistono e, di conseguenza, i sacrifici di animali fatti alle loro immagini non hanno senso. È preferibile astenersi, evitare di mangiare quella carne, come se effettivamente il sacrificio fosse stato valido e, dunque, come se gli dei esistessero. Perché è carità (ἀγάπη) non accanirsi nei confronti dei fratelli che non conoscono bene la questione e non avranno mai gli stessi strumenti degli altri che, invece, si sono resi conto subito di quanto era stato detto dai ministri fin dall’inizio della predicazione. Carità e autorità vanno coniugate insieme, conoscenza e libertà d’azione stanno sullo stesso piano e nell’orizzonte sempre più ampio dell’intera comunità, piuttosto che in quello che riguarda soltanto alcuni e non tutti i fratelli e le sorelle. La prospettiva del fratello e della sorella più fragili nella cultura, un pò ignoranti (forse!), magari testardi e cocciuti, non va snobbata e presa in giro, ma accolta e rispettata come la prospettiva di: «un fratello per il quale Cristo è morto» (8,11); non semplicemente un punto di vista retrogrado e antiquato. Ferire la coscienza debole di questi fratelli equivale a peccare «contro Cristo» (8,12); la qual cosa non è di poco conto.
Ai nostri giorni, come nelle comunità fondate da Paolo e delle prime chiese cristiane, anche nelle comunità a cui apparteniamo vivono tanti di questi fratelli e sorelle deboli e magari non partecipano alle nostre assemblee proprio perché “in minoranza” culturale. Come stiamo impegnando il tempo delle iniziative pastorali in loro favore? Quali sono le priorità che possiamo pensare insieme nelle nuove logiche per una chiesa “sinodale” che impari a fare cerchio e non quadrato?
Spunti e appunti per una Lectio personale
Rapporto con Dio e vita fraterna
(Ezechiele 3,17-19; Matteo 18.15-18; Apocalisse 2,3-5)
Siracide 13,13I loro occhi videro la grandezza della sua gloria,
i loro orecchi sentirono la sua voce maestosa.
14Disse loro: «Guardatevi da ogni ingiustizia!»
e a ciascuno ordinò di prendersi cura del prossimo.
Atti 20, 32E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità fra tutti quelli che da lui sono santificati. 33Non ho desiderato né argento né oro né il vestito di nessuno. 34Voi sapete che alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. 35In tutte le maniere vi ho mostrato che i deboli si devono soccorrere lavorando così, ricordando le parole del Signore Gesù, che disse: «Si è più beati nel dare che nel ricevere!»
