16 Gennaio 2024

Appartenere a Dio: novità di vita comune (1Cor 6,1-20)

di Don Salvatore Chiolo

La presa di posizione di Paolo, apostolo tenace e coraggioso presso la città di Corinto, muove su diversi fronti. Come già accennato, al capitolo 5 la questione riguarda quella correzione fraterna tanto raccomandata in quanto disciplina indispensabile per garantire la persona di ciascun fratello assieme all’immagine della comunità agli occhi della gente e della polis, cioè dalla città di Corinto. È più che fondamentale vivere la propria appartenenza alla comunità, afferma Paolo, secondo uno stile quanto più in linea con le indicazioni dei missionari e con quella responsabilità che rende ciascuno custode dell’altro, e viceversa. Le questioni interne, poi, vanno affrontate con verità, dialogo e merito, perché nulla e e nessuno venga penalizzato; tuttavia, l’apostolo ribadisce che lo stile corinzio anche su questo aspetto deve cambiare. Alcuni fratelli, a proposito di controversie sorte all’interno della comunità, hanno preferito interpellare le figure giuridiche messe a disposizione dalla polis, come giudici e tribunali. L’apostolo rimane stupito di come i fratelli non riescano a mantenere un assetto di “santità” permanente, ovvero una condizione interiore ed esteriore tale da vivere la comunità come una vera e propria “cittadina”; perciò egli riprende l’appellativo «santo» (ἅγιος, 6,2) con cui già si era rivolto all’inizio della lettera salutando tutti i fratelli corinzi: «alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata» (1,2) e lo fa per confermare, appunto, la condizione che essi vivono, nonostante ne abbiano scarsa consapevolezza, poiché essa proviene da Dio stesso, non da una convenzione sociale interna o esterna alla comunità. Una condizione inaugurata attraverso il battesimo, in quanto rito di perdono e remissione di ogni peccato per un prosieguo di vita che tende all’obbedienza del vangelo, parola della croce, e del pensiero di Cristo. L’assenza di una «persona saggia» (σοφὸς) all’interno della comunità (6,5) autorizza i fratelli a fare affidamento a uomini estranei alla comunità, definiti dall’apostolo con l’eufemismo di «non credenti» (6,6) e questo modo di scrivere mostra ancora una volta come sapienza e fede siano esperienze complementari e, soprattutto, che la sapienza si esprime nella pratica dell’amore dell’altro al fine di costruire sempre di più l’edificio, il campo ed il tempio di Dio, che è la comunità (3,1-17). Fare torto (ἀδικέω) al fratello è innanzitutto rifiutare la comunità, oltre che una colpa di cui prendere tutti consapevolezza ed esprimerne condanna; e rifiutare la comunità vale sia per chi compie il torto sia per chi lo subisce appellandosi a «non credenti» (6,7). L’idea della comunione, dunque, rimane costante nell’esposizione dell’apostolo e nulla può distrarre da questo fine a cui i fratelli sono chiamati, come se essere «santi per chiamata» (1,2) significasse essere adatti e responsabili della comunità e della comunione. Insistere su questo rapporto dei fratelli con la comunità significa per l’apostolo continuare a organizzare la comunità , riequilibrando i pensieri e le scelte di ciascuno, secondo il pensiero di Cristo, pensiero autentico anche se poco coreografico; perché mentre secondo le categorie, i valori e le scelte prima della chiamata, essere amati da Dio si poteva rimanere un fatto marginale, adesso invece è il motivo principale della vita di ciascuno. «Il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo» (6,13), afferma l’apostolo considerando con il termine “impurità” ogni comportamento che va contro la comunione e la comunità. Alimentare, infatti, il pensiero di Cristo significa irrobustire la comunità che, come un corpo, è l’incontro, il dialogo tra membra accostate e prossime che interagiscono in armonia per un fine soltanto: l’altro. E se questo vale per tutti i fratelli, vale anche per ognuno singolarmente, proprio riguardo al comportamento di ognuno: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi» (6,19). È stupendo come ad un certo punto, infatti, si dischiuda il senso dell’apostrofe consegnata ai Corinzi: non appartenere a sé stessi, ma a Dio. Ogni proprietà, ogni bene personale e ogni diritto o privilegio è legato a Dio, perché tutto appartiene a Lui; ma la cosa ancora più sorprendente è che, secondo il pensiero di Cristo annunciato da Paolo, appartenere a Dio accresce la libertà nella partecipazione e nel coinvolgimento alla vita della comunità, per cui aiutare i fratelli oppure essere d’impedimento e ostacolo alla comunione è una scelta da maturare in modo personale. «Tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (3,22-23) e «Tutto mi è lecito!. Sì, ma non tutto giova» (6,19).
Ci chiediamo: cosa può favorire la partecipazione e il coinvolgimento libero e aperto alla vita della comunità, in un tempo di riflessione sulla “sinodalità” della Chiesa? In che misura può aiutare il cammino di fede di ciascuno e di tutti insieme a considerare il cambiamento della riflessione sull’uomo che è in atto così da pensare iniziative “attuali” e comuni alla sensibilità del vissuto sociale?

Spunti e appunti per una Lectio personale

Fedeltà del popolo e fedeltà personale

Geremia 30, 21Avranno come capo uno di loro,
un sovrano uscito dal loro popolo;
io lo farò avvicinare a me ed egli si accosterà.
Altrimenti chi rischierebbe la vita per avvicinarsi a me? Oracolo del Signore.
22Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. ( vedi anche: Is 7,9b; Esdra 9,6; Mc 16,20

 

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