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La Parrocchia

Spigolature soriche

Il Codice di diritto canonico, al can. 515 § 1, definisce la parrocchia come «determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell’àmbito di una Chiesa particolare, la cui cura pastorale è affidata, sotto l’autorità del Vescovo diocesano, ad un parroco quale suo proprio pastore». Questa definizione riprende svariati documenti del Concilio Vaticano II, tra i quali Ad gentes, Christus Dominus e Apostolicam Auctuositatem dove si parla della parrocchia come comunità e cellula. La stessa figura del parroco è inquadrata ecclesiologicamente, come colui che partecipa al ministero di Cristo, esercitando in comunione col Vescovo il triplice munus di insegnare, santificare e governare. È  significativo osservare come nell’ambito delle sessioni di lavoro per la redazione del Codice del 1983, proprio riflettendo sulla proposta di quello che poi sarebbe stato il can. 519 che parla del parroco, alcuni Consultori abbiano proposto (ed ottenuto) che si utilizzassero i verbi “insegnare santificare, governare”, anziché l’esplicitazione del parroco come “maestro, sacerdote e rettore” (Pontificia Commissio codici iuris canonici recognoscendo, Coetus Studii de Sacra Ierarchia, Sessio XI in Communicationes 1992, pag. 140), per evitare una lettura più personalistica e funzionale del ruolo del parroco ed evidenziando, invece, la ministerialità di queste azioni cristiche che il parroco esercita sacramentalmente.  Ma ci vogliamo chiedere quale sia stata l’evoluzione storica dell’istituto parrocchiale nella nostra Sicilia, considerata la centralità della parrocchia come cellula di base dell’evangelizzazione e che il Vaticano II ha ribadito come tale. Seguendo gli studi di Adolfo Longhitano, è in epoca normanna, nell’XI secolo, all’indomani della dominazione islamica, che si sedimenta una certa forma delle istituzioni ecclesiastiche in Sicilia che si caratterizzarono per una certa “staticità” fino all’Unità d’Italia. Proprio per una certa dispersione dei fedeli cristiani a motivo della presenza islamica, i normanni vollero creare un sistema ben determinato e centralizzato di circoscrizioni ecclesiastiche tra cui lo stesso sistema parrocchiale. La rete delle diocesi e delle parrocchie fu molto aderente alle suddivisioni proprie del sistema feudale con beni ecclesiastici di fatto di proprietà del potere regio, la nomina regia per le cariche ecclesiastiche e la cura delle anime affidata ad una pluralità di soggetti tra cui gli arcipreti che rappresentavano il vescovo ed amministravano la giustizia canonica nella propria giurisdizione e i cappellani che amministravano i sacramenti nelle chiese loro affidate su commissione di un nobile del luogo che, oltre ad essere il committente della stessa chiesa officiata, era colui che nominava quel sacerdote per quella chiesa essendo lui il garante del beneficio economico sotteso all’ufficio ecclesiastico ricoperto dal chierico. In quel secoli la parrocchia dunque non era vista tanto come una comunità di fedeli, una porzione vitale e fondamentale della Chiesa particolare ma come un “beneficio”, cioè un patrimonio stabile che garantiva una rendita al chierico titolare di essa. Le parrocchie, inoltre, potevano essere governate da un sacerdote o da un collegio di chierici che prendeva il nome di comunìa. Un volto diversissimo, certamente, da quello odierno. Un modo per vedere come anche oggi la parrocchia, scolpita dagli insegnamenti del Concilio Vaticano II e dal Codice di diritto canonico del 1983, sia una preziosa possibilità di vivere la gioia di essere Chiesa.



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