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La rubrica per celebrare Dante Alighieri

La sfida del vivere umano

Non basta da sola la volontà per compiere il vero viaggio della vita: a te convien tener altro viaggio! La strada è un’altra: Dante dovrà fare tutto il percorso necessario per conoscere la profondità del proprio cuore, tutto il bene di cui è capace ma anche tutto il male di cui è impastato e che può a sua volta compiere. Avviandosi verso il purgatorio, capisce che il male esiste ma che può essere perdonato e allora sotto la guida di Beatrice potrà accedere a ciò che desidera realmente.

L’Alighieri accetta di mettersi nuovamente in discussione e di prendere un’ulteriore decisione, una nuova partenza: così li dissi: e poi che mosso fue, intrai per lo cammino alto e silvestro. Il cammino vero chiede sempre di rimettersi in discussione e si capisce che la vita non è una passeggiata: anzi militia  estAltra drammatica constatazione è la solitudine dinanzi alla scelta: io sol uno! Eppure Dante era in compagnia. La solitudine riguarda la scelta personale che solo l’uomo può fare per sé e solo per sé. Al di là di ogni vittimismo, la vita è responsabilità di ciascuno.

Occorre rispondere alla vocazione intima dell’esistenza che chiama semplicemente a vivere, abbandonando ogni reticenza e ogni paura. Ma questo non si capisce subito, lo si capirà cammin facendo. La vita incarnata nel cammino, chiede di prender posizione e di non restare inermi per paura di sbagliare, imbavagliati dal compromesso della prudente ipocrisia: ad un certo punto del viaggio occorre decidersi se vivere o vivacchiare o – per riprendere le parole di Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta: “se essere uomini, mezzi uomini, ominicchi o quararaquà. Questa la vera sfida dell’uomo di ieri e id oggi: vivere da uomini e – per dirla con Papa Francesco in Fratelli tutti  – “sentirci responsabili degli altri”, non restando affacciati al balcone vedendo scorrere la vita. La libertà si muove scegliendo una strada dice Franco Nembrini nel commento alla Divina Commedia (edizione Itaca, 2011).

La vigliaccheria, il vivere una vita a metà senza scelte vere e autentiche, è la tentazione che deve attraversare Dante e con lui ognuno di noi. Molte fiate ingombra l’uomo e lo rivolve, ossia lo fa tornare indietro, gli fa cambiare idea repentinamente e lo fa retrocedere dinanzi alla impresa onrata, come falso veder bestia quand’ombra (cf. Inferno II). Una delle categorie che più soffrono le pene dell’Inferno sono proprio gli ignavi, coloro che hanno vissuto sanza ‘nfamia e sanza lode, diremmo noi “diplomaticamente perfetti!” Eppure sono loro che, cercando di dominare la vita con la sola osservazione della realtà, ne vengono risucchiati e distrutti. Il libro dell’Apocalisse li chiamerebbe tiepidiné caldi né freddi, degni solo di essere vomitati dalla bocca dell’Altissimo (cfr. Ap 3,16).

Dante direbbe che questi uomini sciagurati, che giammai furon vivi, è come se non avessero vissuto una vita umana e perciò sono condannati – per la legge del contrappasso e della contrapposizione – a dare ai vermi quello che non hanno dato alla vita: lacrime e sangue, che mantengono i vermi si cui camminano. Interessante il rimando ai due elementi vitali estremamente forti: le lacrime, che nascono dalla consapevolezza del limite di fronte ad una gioia o ad un dolore troppo forte da accettare e il sangue che mantiene in vita l’uomo. Sono le esperienze vitali del limite che rendono l’uomo realmente uomo e gli permettono di attraversare l’inferno e ritornare a riveder le stelle appannate inizialmente dal dolore.

In un tempo di identità liquide e fluttuanti, in cui si guarda la mossa degli altri solo per attaccarlo in ogni movimento e in modo pretestuoso – dalle situazioni politiche a quelle ecclesiastiche –  Dante ci ricorda che per essere realmente umani occorre vivere e accettare la fatica della responsabilità e della scelta. Realtà peggiore del male è il non scegliere affatto!



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