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Il modo della presenza cristiana nell’epidemia del covid19

In pericolo non è la fede, ma i fedeli

Tra le tante contestazioni che vengono sollevate, oltre a quelle fiaccamente politiche il cui scopo è notoriamente demagogico e volutamente dannoso, imperversano lagnanze che, rifacendosi a memorie prodigiose in cui santi e reliquie compaiono come rimedi istantanei, risolutivi di epidemie e pestilenze, deplorano l’apparente assenza dalla scena contemporanea di carismatici vescovi, sacerdoti, frati e monache in testa a manifestazioni religiose reiterate secondo una matrice di gusto romantico per impetrare l’intervento portentoso di Dio e dei suoi santi a panacea della tremenda situazione di disagio causata dall’epidemia del covid19.
Alle rivendicazioni di riti apotropaici molti tra preti e religiosi hanno deciso di rispondere, immagino in buona fede, prestando il fianco alla loro radice puramente emotiva. Stanno di conseguenza fiorendo, macinati dalla mola della rete telematica, stravaganti e spesso coloriti gesti con cui si vedono a passeggio statue di Madonne a rimorchio di furgoncini approntati per l’uso; preti abbigliati di trine e merletti all’ombra di ombrellini dorati che impugnano ostensori; nugoli di suore canterine appollaiate sui tetti dei loro conventi e tant’altro. Viene da chiedersi se dietro a tali mimiche, inscenate in modo compassato, non ci sia un nonsoché di cinismo di casta, teso ad accontentare più che a educare, nella logica del detto attribuito al cardinale cinquecentesco Carlo Carafa, vulgus vult decipi, ergo decipiatur (Il popolo vuole essere ingannato, e allora sia ingannato).
Ciò che di fatto sconcerta al cospetto di queste pantomime non è l’oggetto esibito che resta meritevole sia di ogni rispetto, come nel caso del simulacro mariano, che di decoro, onore e adorazione, come nel caso dell’ostia consacrata, ma il paludarsi degli attanti da protagonisti improvvisati dietro a qualcosa che non appartiene loro, ostentandone il possesso più che la custodia e dunque marcando nei fatti una inverosimile distanza formale proprio nell’atto inconsulto di colmarla materialmente, fingendosi liberi artigiani di un ordine divinamente costituito. E a sigillo di tutto questo, la smania di essere puntualmente ripresi da telecamere e immediatamente riversati nell’oceano mediatico.
Si tratta di una incresciosa quanto assolvibile bizzarria che, pur nutrendo l’eccentricità fuori posto di chi per forza maggiore ha dovuto sospendere le proprie comparse sceniche in contesto sacrale, ora annaspa nella ricerca di un riposizionamento all’interno di uno spazio immaginario tra i flutti di una società liquida. Il problema è che tali estrosità, oltre che situarsi in una cornice narcisistica diffusa, non transitano senza lasciare conseguenze.
Di fatto rimandano, ancor più che allo sprezzo insito nell’atteggiamento, al contenuto effettivo di quel decipiatur appena riesumato dalle viscere di un secolo lontano. Spostando tanto imprudentemente il perno della questione dall’ambito della fede – dimensione nativa della Chiesa creata dall’adesione alla Parola e intessuta dal legame sacramentale che essa stabilisce con Dio e sostanzialmente anche tra i fratelli – alla dimensione magico-sacrale, tali atteggiamenti finiscono col dare manforte a un inganno che soffoca la fede e schiaccia la ragione.
Il magico è il colpo di coda sferzato dall’irrazionale alla fede il cui compito invece è di illuminare la ragione senza farsi temperare dalla compiacenza verso l’assurdo. Insinuare una eccedenza della conoscenza evadendo i confini della ragione, e oltrepassando le infinite potenzialità della fede, il cui fine è il conoscere Dio come Dio si conosce, non avalla unicamente un regresso dall’autentica tradizione della fede, catapultando i più verso forme di infantilismo religioso, ma ancor peggio rischia di manipolare il pensiero e la capacità di giudizio di un’intera comunità attraverso la cessione del timore al terrore e alla minaccia veicolati dallo strumento sempre efficace di un animismo religioso, per di più propagato da pastori incapaci di rinunciare a quel subdolo meccanismo di potere, insinuato e ostentato in simili artificiose esibizioni.
Papa Francesco ricorda che «non dobbiamo ridurre il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità» (Intervista a Papa Francesco di p. A. Spadaro S.J., 19 agosto 2013, in «La Civiltà Cattolica» 164 (3/2013) 3918, pp. 449-477). A ragione il vangelo punta sempre in alto, alla santità, all’essere perfetti come il Padre celeste (cf. Mt 5,48). La santità precede e dà vita all’esperienza della carità e soppianta definitivamente lo schema capzioso insito nel binomio sacro-profano che costringe l’uomo al centro dell’angosciante duello tra poli opposti e irriducibili. È ammettendo anche solo per gioco la veridicità di un contrasto primordiale tra principi dualizzanti, che nell’esperienza prevarrà la necessità di gestire il “sacro” come realtà oggettiva e delimitata, in antitesi con il profano, a discapito dell’importanza di indicare e seguire la via della “santità” nella storia.
Nel caso in questione prevale l’istrionica esigenza di dover separare e sostenere la sacralità di un ruolo, una funzione, un oggetto, un luogo circoscritto; al contrario nel caso della santità sussiste piuttosto la fondamentale ragione del proprio essere personale e agire comunitario senza delimitazioni di sorta. Osserviamo infatti che i vangeli non parlano mai del posto, né della posizione dei discepoli, ma parlano invece molto del loro comportamento: la povertà (Mc 6,8), l’umile servizio (Gv 13,15-17), in una parola, il rifiuto del potere (Lc 22,24-27). L’identità del credente non sta nel ricavarsi una angolo sacro, di attribuirsi una funzione inviolabile, di insediarsi dentro un circolo sacrale, ma nasce da una fraternità condivisa, cioè dalla santità come relazione personale e comunitaria con Dio e con i fratelli.
Dal messaggio sacrale la storia ha derivato un ordine di potenti specialisti, capi solitari della comunità, intoccabili guru che spacciano la propria persona e le proprie funzioni come evidenza del santo. In tal modo l’uso invalso e addomesticato della categoria del sacro ha sovvertito quello della santità. La santità distingue per unire: l’assolutamente Altro fa un’alleanza; il sacro divide per regnare: esso comanda al profano. Una cosa buona della secolarizzazione è che ci chiede di fare la distinzione, non tanto tra sacro e profano allo scopo di superare una dualità che è solo fittizia, ma tra il concetto di sacro, così come deriva dalla sua supposta antiteticità con l’ipotesi del profano, e la santità.
La visione di santo come individuo posto “a parte”, che vive una tensione di allontanamento dagli altri e lo costituisce uomo del sacro, sbatte così contro quell’altra che vede ogni credente ricercare relazioni riconciliate e fraterne, mescolato agli altri con cui vive, lavora, soffre e gioisce in comune. Certo, si tratta solo di immagini, ma potenti. All’intento incorporeo della prima si contrappone la volontà di incarnazione della seconda. La santità è storica, nel senso che nella Chiesa contrassegna l’aldiquà di Dio, inaugurato con la creazione, reso pieno nell’Incarnazione e continuato nella comunità credente. Ciò esclude una ipotesi di profano e chiama la Chiesa a stare al centro della vita di ogni giorno perché nell’esistenza dell’uomo Cristo con la sua Incarnazione e la sua Risurrezione ha posto il tempio da cui parte la vera adorazione di Dio.
Costituisce per la Chiesa non il protratto tentativo, ma l’unico modo di condividere uno stile particolare di presenza nel mondo degli uomini. La Chiesa e i suoi membri esistono per tessere legami che traducono nel quotidiano la fede nel Dio unico ma vivente di relazioni trinitarie. Un corpo è qualcosa di più della somma delle sue membra: vive di un’unità che, per Paolo, viene da un principio, il capo che è Cristo (Ef 1,22). In questo va collocata l’opera della santità, nel fare dei diversi elementi un insieme vivente. La missione di santificazione della Chiesa santa è di fare in modo che ciò che distingue sia valorizzato unicamente in funzione di ciò che unisce, contrariamente ai rapporti elettivi o di convenienza in cui ciò che unisce spesso è dato dal superamento delle differenze e da compromessi. Nella Chiesa la santità è all’origine delle relazioni che configurano l’unità, e la Chiesa dinanzi alla storia e dentro di essa è contrassegnata da questo rapporto d’origine con Dio il solo santo.
Tempestivo appare in questo senso uno stralcio del discorso del Patriarca ecumenico Bartolomeo I con cui ha annunciato la sospensione di ogni liturgia: «Forse, alcuni di voi hanno avuto la sensazione che con queste misure drastiche si sottovaluti e si offenda la fede. Tuttavia, ciò che è in pericolo non è la fede, ma i fedeli, non è Cristo ma noi cristiani, non è il Dio-Uomo, ma siamo noi uomini. Proteggiamoci e proteggiamo chi ci è accanto» (Lettera del Patriarca ecumenico Bartolomeo I al personale sanitario e infermieristico del 19.03.2020).
In un certo senso quello che con infinito dolore ci manca nei termini di una liturgia attorno all’altare si sta realizzando ora nell’unione dei sofferenti al sacrificio di Cristo, nello stremo delle energie di tutti quelli che sono coinvolti direttamente con i malati, nel dolore dei sopravvissuti alle numerosissime vittime, nella immane e difficile responsabilità dei governanti, nel lavoro di tutti quelli che supportano con immensa fatica i moderni lazzaretti, nell’assiduità dei servizi resi alla società da parte di venditori, operai, camionisti, per citarne alcuni, e anche nella pazienza da imparare rimanendo a casa. Non è forse questo, nella varietà infinita delle sue esplicitazioni, l’esercizio di quel sacerdozio comune, delle volte caratterizzato anche dall’offerta del pagano Melchisedech, cui va reso il vero servizio del ministro ordinato?
Tale servizio lo impegna ad essere in mezzo alla comunità credente messaggero ed esegeta della Parola con una testimonianza autentica della vita; curatore affidabile della formazione delle coscienze; animatore della preghiera suscitata dallo Spirito, rispettosa del vissuto, dei linguaggi e dei simboli della comunità; canale della forza, della luce e della consolazione del Cristo nell’incontro sacramentale; promotore dell’esperienza di comunione e iniziatore di prossimità; accompagnatore compassionevole nel cammino di conversione e riconciliazione; sostenitore di stili di vita sani, liberi e maturi; custode e difensore dei poveri, dei fragili e dei sofferenti; portatore del balsamo della speranza con cui lenire le ferite dei viandanti; sentinella consapevole, alla luce del vangelo, del diritto e della giustizia plasmati dalla carità; ispiratore costante di rinnovamento e di crescita; artigiano di cammini di santità, in una sola parola, pastore cui è affidato il gregge di Cristo, e al quale ancora oggi egli impone: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37).



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