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Non quello che si fa, ma chi lo fa

Bisogno di leader

Essere addestrati e capaci come Lui “venuto per servire e consapevoli che quando s’è fatto quello che si doveva fare, siamo servi inutili”. La gratuità del dono ricevuto è per gli altri. Si può riflettere sulla carità nelle diocesi nel senso ampio e pieno del termine, di azione per gli altri l’azione pastorale, includendo l’impegno politico. La riflessione non è su quello che si fa, ma chi lo fa, cioè quanto posto vi hanno i laici, con qualche competenza, e se vi sono espressi dei leader di formazione e vita evangelica.
Persiste la clericalizzazione dei laici, o la supplenza (a vita) del clero di un laicato lento o non convinto o non motivato. E anche se i laici ci sono, l’immagine prevalente è quella del Papa, del vescovo, del parroco che promuovono attività e opere. S’è aggiunto il ‘diacono’, una figura clericale di ‘ministro ordinato’. Si parla opportunamente di sodalità, lanciata dal Papa e accolta dai vescovi: come attuarla? Sono prioritarie le competenze e lo spessore di fede vissuta. E come averle? Con la “Lectio Divina” proposta, libera da un contesto liturgico, più da cenacolo per gruppi vari, pur piccoli, si potrebbe individuare chi ha capacità di leader, seguendolo in questa prospettiva.
È il leader che dà maggiore vitalità all’associazionismo cattolico: dai movimenti alle associazioni, dall’Azione cattolica nei suoi rami alle ACLI, e via dicendo. Qualche decennio fa, si parlava di dare a dei laici responsabilità di primo ordine per la diocesi, non subalterna ma coordinata. Lasciare al clero i compiti dell’annuncio della Parola e quelli sacramentali; ai laici quelli tecnici, organizzativi, pur direttivi. La percezione che si ha, è di un laicato non motivato nel servizio, tanto più se non richiesto, o visto in forma suppletiva. Mi sembra emerga una triade: Autorità costituita che non può disattendere al proprio compito, il Popolo e i Leader. Potrebbe esserci rivalità tra questi, se i leader si pongono fuori o al disopra del popolo; se ne interpretano i bisogni e si adoperano per essi, sono non solo utili, ma necessari per non “avere un popolo senza pastori”. Il problema è anche di un laicato popolare, privo di competenze o disinteressato.
La pubblicistica narra di ecclesiastici non di laici con la constatazione generale che mancano figure di laici emblematici, cristiani testimoni del Vangelo nei campi della vita sociale, produttiva, dei media, dell’arte. Sembra prevalere una religiosità intimistica o di gruppo, chiusa in se stessa un po’ a difesa, un po’ paurosa di misurarsi con il mondo. Se Gesù disse: “Non siete del mondo”, nella logica della carne (dirà Paolo), aggiunse “siete nel mondo … luce, lievito… città sul monte”. Lui “è venuto per dare la vita per il mondo”.
Non mancano analisi nella Chiesa sui problemi della realtà religiosa, sociale, economica, politica. Mi sorprendo a leggerli per la profondità e acutezza, e mi chiedo chi può risolverli se non la Chiesa, e specificatamente dei cristiani adulti? Diversamente restano parole a vuoto, che si ritorcono contro noi stessi. Il cristiano, tanto più se chiamato a essere leader, si forma uno a uno e in un contesto idoneo a questo e, più ampiamente, in quello di una sacra mentalità più consapevole, della sodalità effettiva, di una formazione spicciola ma costante, di una predicazione concreta, di una programmazione con scadenze e verifiche. Se tutto è condivisibile, nella realtà s’inceppa. Leggere in articoli che bastino ‘pochi ma buoni’, non mi sembra del tutto esatto: occorrono pochi che fermentano la massa.
Si apre il discorso dei ministeri, quelli istituiti e quelli da confermare come “doni dello Spirito”. Questo non fa crescere la Chiesa? Un piccolo contributo, il mio più che ottantenne come il papa, che inerisce nell’essere sempre nel tessuto della Chiesa locale, anche con la preghiera.
Un di più è sempre proponibile; una revisione è sempre necessaria; l’invocazione dello Spirito è imprescindibile.

padregiulianariesi@virgilio.it



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